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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2012 alle ore 18:47.

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Non siamo più l'Italia dei Castiglioni, degli Zanuso, dei Magistretti, degli Albini, dei Gardella, degli Scarpa. Non siamo più il Paese capace solo di esportare creatività e bellezza. Siamo la Germania. Siamo noi a importare cervelli, ad attrarre creatività, a reclutare i migliori. Siamo noi a offrire efficienza, tecnologia ed esperienza in grado di concretizzare le idee dei creativi di tutto il mondo.

La settimana del mobile a Milano è la prova di questa tesi, spiegata dal punto di vista industriale dall'inchiesta di Paolo Bricco nelle pagine successive. Tutte le grandi città del mondo hanno una settimana del design, ricorda Bellini. Le loro settimane durano una settimana, poi finiscono e ci si rivede l'anno successivo. Quella di Milano, invece, dura un intero anno. Vengono tutti qui. Tutti. Architetti, artisti, scrittori, editori, fotografi, stilisti, critici d'arte, storici, giornalisti, produttori, ricercatori di nuove tecnologie, professori universitari, esperti di marketing, studenti e aspiranti designer. Il motivo è uno solo: Milano, la capitale del design che si trova al centro del network di ricerca e produzione dell'intero sistema.

Negli anni Sessanta, Bellini era molto più giovane dei venerati maestri del design. Quelli lo guardavano con sospetto, quasi come un intruso. A poco a poco, però, ha cominciato a progettare oggetti incredibili e per venticinque anni non si è fermato un momento, fino alla consacrazione di una mostra personale al MoMa di New York. Ora lo chiamano "maestro" – ma lui ogni volta fa gli scongiuri – perché ha reinventato il linguaggio del letto, delle poltrone, dei divani, ha rinnovato le tecniche di costruzione delle sedie, ha anticipato l'idea dell'automobile monovolume. Le sue macchine per scrivere e le calcolatrici per Olivetti sono gli iMac di quarant'anni fa. Il suo mangiadischi colorato e portatile per Grundig/Minerva è l'iPad del Sessantotto. Mario Bellini ha vinto otto Compassi d'Oro per il design, ma a metà degli anni Ottanta ha deciso di rallentare la progettazione di oggetti per dedicarsi all'architettura. Sono suoi il nuovo padiglione delle arti islamiche al Louvre (che verrà inaugurato in autunno), la nuova sede della Deutsche Bank a Francoforte, la Fiera di Milano City con il nuovo centro congressi e molto altro in tutti gli angoli del mondo.

Il ritorno all'architettura di Bellini avvia un altro ragionamento sulla storia del design italiano. A svolgerlo è sempre lui, questa volta seduto su una Bellini chair grigio chiaro nel suo studio milanese vicino ai Navigli. All'inizio del secolo scorso i grandi designer erano anche grandi architetti, racconta Bellini, ma a un certo punto c'è stata una specie di separazione delle carriere. Sono nate le scuole di design, impregnate di ideologia, e sono cresciuti i primi designer puri. Secondo i dogmi di queste scuole, Bauhaus in testa, il design doveva educare il pubblico, doveva diffondere valori egalitari e democratici. Si doveva opporre ai dogmi dello stile. Si professava il good design, il design giusto. Ai tempi si chiamava ancora industrial design, a sottolineare che doveva soddisfare il mito del grande numero e gli istinti puritani. Doveva essere un modo di progettare guidato rigorosamente dal senso della misura e della necessità, quasi al limite del pauperismo. Doveva dotarsi di una maschera pudica in grado di controllare ostentazione e lusso.

Bellini racconta tutto ciò prendendo le distanze, quasi come Tom Wolfe nel celebre libretto From Bauhaus to Our House, in italiano tradotto con Maledetti architetti, provando a sgombrare il campo del design da quell'ideologia masochistica e autopunitiva delle origini e da certi progetti pedagogici, velleitari e inutilizzabili (2).

Il merito dei designer italiani, spiega Bellini, è stato quello di cambiare quasi inconsapevolmente queste regole. Ci sono riusciti principalmente perché erano architetti a largo spettro, chiamati a disegnare anche oggetti e arredi con quella naturalezza derivante da un'equilibrata distanza critica dalle ideologie radicali del design tedesco. Grazie a quella stagione, scherza Bellini, la parola design non ha più alcun significato speciale. Design in inglese vuol dire progetto. Ma quando si dice "di design" si intende qualcosa più di un progetto. Anche perché tutto è un progetto. Un oggetto di design però sembra avere un significato liberatorio, catartico, emozionale. Il design è quel tocco in più alle cose che ci circondano, continua Bellini, alle cose che contribuiscono a costruire il manifesto del nostro stile di vita. Uno stile, conclude, seminato ormai in tutto il mondo ma coltivato prevalentemente in Italia.

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