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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2012 alle ore 11:10.

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Molti dopo la laurea si perdono: alcuni, per fare cassa, preferiscono fare siti; altri finiscono a lavorare nel mondo della comunicazione; moltissimi entrano «nel tunnel degli stage», talvolta in condizioni al limite della leggenda urbana – telecamere che controllano chi sta lavorando, manate che calano da tergo per i più distratti. Lo stage è un elemento fondamentale e va scelto al meglio.

«Quando sono arrivato nello Studio Iacchetti oltre a me c'erano due senior designer, un battitore libero e un altro stagista», dice Alberto, che ha fatto tutto il cursus honorum e ora si è messo in proprio. Irene, invece, giunta con lo studio Ragni al suo terzo Salone del mobile («che è un po' il capodanno del designer»), ancora non se la sente: «Vorrei raccogliere ancora un po' di esperienze prima di cominciare a ballare da sola», ammette, consegnandomi una sorta di melanzana gommosa insieme al caffè; la manipolo con incertezza, poi capisco che devo rovesciarla per versare lo zucchero. Alberto sorride: «Questo è il design: creare cose che arricchiscono la vita della gente».
In un mercato saturo di oggetti industriali, l'autoproduzione di serie limitate è diventata per i progettisti emergenti il modo più efficace per farsi notare dalle aziende. E forse sarà proprio l'autoproduzione a definire l'attitudine di questa generazione.

Ne è convinta Loredana Parmesani, docente all'Istituto Europeo di Design (1) e autrice di L'Arte del XX Secolo e oltre (Skira). Il progetto non è più fare un mobile, esemplifica Parmesani, ma un chiarimento delle strategie complesse che ci sono dietro. Proprio per questo molti hanno riscoperto modalità di lavoro artigianali e artistiche. Le tecnologie hanno un ruolo fondamentale: «E non intendo solo le stampanti 3D, ma anche le strategie di comunicazione», precisa la studiosa, «È la rivincita del processo, di cui l'oggetto è una sorta di ombra». La nuova attitudine è arrivata anche nelle scuole, come dimostra Mathery di Erika Zorzi e Matteo Sangalli, due neolaureati alla NABA (2). Durante il secondo anno accademico hanno aperto un blog, dove ogni giorno pubblicavano un esempio di progettazione veloce, nato da un'intuizione e realizzato nel giro di poche ore con i materiali a disposizione. Da lì in poi, è stato il loro biglietto da visita.

L'autoproduzione, unita alla passione e alla tenacia, quasi sempre paga. Lo dimostra il caso di [1+2=8], uno studio che ha sede presso lo Spazio Concept, in piena zona Tortona. Andrea Barra, eclettico progettista trentunenne, diplomato in disegno industriale allo IED, mi dissuade dal chiamarlo designer – «io sono un progettista» – e mi fa un quadro della situazione tutt'altro che ottimistico. «I soldi non girano» e «di design non si campa» ripete più volte Barra, che è specializzato in interni e quando parla del suo lavoro si illumina come solo gli adolescenti alla prima cotta. Ilaria Petrosillo, che si occupa della comunicazione, fa un altro lavoro part-time, come il terzo componente dello studio, Davide Gallina, anche lui diplomato allo IED: solo così possono permettersi di autoprodurre. Il primo oggetto che hanno autoprodotto, il Cappello Tagliabile, è stato acquistato da Borsalino.

Tutto iniziò con una mail, che Ilaria ricorda a memoria: «Siamo un giovane e tagliente studio di design e abbiamo un cappello tagliato da proporvi. Dato che è stato progettato per i giovani ma piace tanto agli over 50, abbiamo pensato a voi». Due giorni dopo arrivò la risposta del product manager, ma ci sono voluti due anni per mettere a punto il progetto. «Perché di design non si vive», chiosa Barra, alzando le spalle come a dire, «come volevasi dimostrare».
Nella sua carriera di docente, Parmesani ha conosciuto la grande spinta degli anni Ottanta, ma anche la stanchezza dei Novanta, protrattasi poi ben oltre il cambio di secolo. «Ora mi sembra che ci sia una ripresa», afferma, e sorride: «Io ho molta fiducia nei giovani». La crisi, a partire dal 2007, ha messoin discussione una serie di valori, di contenuti, di modalità, di processi. Nella progettazione, come nell'arte e in tanti altri ambiti, è stato necessario il ritorno alla concretezza, ed è questa la virtù cardinale di molti nuovi progettisti, consapevoli di vivere una fase nuova, che va affrontata in modo diretto.

«Siamo la generazione Nike, il nostro motto è "Just do it"», spiega Matteo Beraldi, classe 1983, secondo il quale la precarietà, bestia nera di una generazione, non va subita passivamente, ma usata come un'arma: bisogna imparare a essere leggeri, volanti e flessibili, perché la tecnologia lo permette. Il suo ufficio, spiega, ha le ridotte dimensioni di un portatile: gli basta quello per lavorare e può farlo praticamente ovunque, basta che ci sia una connessione alla Rete. Se il periodo offre poche certezze, Beraldi intanto si è portato avanti: con tre progetti in fase di realizzazione (tra cui una cucina in uscita per Febal), ha aperto un bed & breakfast a Milano insieme alla fidanzata, Il Libeccio, in un appartamento che hanno ristrutturato e arredato loro stessi l'estate scorsa. Per il Salone del mobile è già tutto esaurito.

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