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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 11:33.

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Gli intellettuali, ha scritto Berman nel saggio del 2010 intitolato The Flight of Intellectuals (incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano), scappano di fronte alla realtà e non assolvono il loro compito che in teoria è quello di spiegare all'opinione pubblica che cosa sta succedendo. I maître à penser occidentali vedono la minaccia di un movimento politico autoritario e totalitario che dice di agire in nome dell'Islam ma, invece di denunciare la barbarie e le intimidazioni, preferiscono fuggire dalle loro responsabilità. Stanno zitti. Rinunciano al loro ruolo. Depotenziano il dibattito. Evitano la discussione. Fanno anche di peggio: accusano i dissidenti e gli spiriti liberi di quelle società, ridicolizzano il loro coraggio. Li disprezzano, anche. Assieme a chiunque prenda le loro difese.

Non è stato sempre così. Nel 1989, il mondo intellettuale si è schierato con Salman Rushdie, quando lo scrittore è stato condannato a morte dalla fatwa religiosa emanata dall'ayatollah iraniano Khomeini, ma allora non era ancora evidente la capacità di intimidazione dell'Islam politico. In nome della libertà di espressione, durante il caso Rushdie le guide morali del mondo libero si sono mobilitate a favore dell'autore dei Versi satanici. I Rushdie dei nostri giorni – da Ayaan Hirsi Ali a Ibn Warraq – sono meno fortunati. Vengono liquidati come personaggi insignificanti, ignoranti, non rappresentativi. Non valgono quanto i leader del movimento islamista che fingono di essere moderati, come Tariq Ramadan.

Secondo Berman, la ragione di questa fuga degli intellettuali è più semplice di quanto possa sembrare: «Pensano sia meglio stare alla larga da autori che definiscono provocatori, temono sia troppo pericoloso sostenerli, sono intimiditi».
Con la polizia del pensiero a vigilare, l'intimidazione e la paura diventano sentimenti decisamente più efficaci della rabbia e dell'orgoglio di chi denuncia l'oppressione e l'intolleranza. La nuova riflessione di Berman, contenuta in questo saggio pubblicato da IL in esclusiva italiana, si concentra su un rischio apparentemente lontano per la società aperta, ma che in realtà è più pericoloso e attuale degli atti di violenza terroristica. Un pericolo di tipo orwelliano.

Berman non è solo in questa battaglia. L'editorialista dell'Observer britannico, Nick Cohen, su questo tema ha scritto un saggio dal titolo You Can't Read This Book (dedicato a Christopher Hitchens, uno che dal caso Rushdie fino al suo ultimo giorno di vita non si è mai dato alla fuga). Cohen sostiene che non è vero che stiamo vivendo un'epoca di libertà senza precedenti, come si usa dire con un pizzico di ingenuità. Chi offende la religione musulmana, anche solo con una vignetta o con un romanzo, mette a rischio la propria vita. Il risultato diretto è l'autocensura, la fine della società aperta. A vigilare che tutto vada secondo i precetti ideologici c'è la polizia del pensiero, temibile per la sua capacità di intimidire e facilitata nel compito coercitivo dall'abdicazione dell'élite culturale.

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