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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 11:33.

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Negli Stati Uniti, due ricercatori esperti di diritti umani, Paul Marshall e Nina Shea, hanno elaborato uno studio che affronta questo problema, intitolato Silenced e pubblicato dalla Cambridge University Press.

Marshall e Shea dimostrano che i portabandiera di un Islam radicale e politicizzato si sono proposti nel mondo islamico e non solo, un obbiettivo specifico, per nulla irrealistico o utopistico: restringere i confini di ciò che è lecito pensare per tutti gli altri. Il modo per raggiungere questo obbiettivo è invocare tabù sacri contro l'apostasia e la blasfemia, assieme a una serie di altri tabù (le «offese all'Islam», la «corruzione sulla terra», la «lotta contro Dio», la «stregoneria» e così via).
Gli ideologi radicali giudicano l'apostasia e la blasfemia come reati capitali punibili, secondo il codice della shari‘a, con la morte. In realtà i vari studiosi islamici liberali e moderati nella stragrande maggioranza dei casi non concordano con questa visione. Secondo gli islamici progressisti, la shari‘a dovrebbe essere vista come un'esortazione flessibile a rispettare una moralità devota, non come un rigido codice di punizioni temporali. La blasfemia e l'apostasia non sono viste con raccapriccio dagli studiosi non radicali, non c'è nemmeno consenso unanime sulla loro definizione. Sono materie aperte al dibattito, ma il dibattito è andato come è andato: le controargomentazioni dei liberali sono state schiacciate, i limiti di ciò che è lecito pensare si sono ristretti drasticamente. E il successo dei radicali è dovuto in misura significativa a un fattore importante e osservabile, che i due ricercatori americani sui diritti umani, Marshall e Shea, si sono sforzati di documentare: l'intimidazione sistematica. I radicali sono più che disposti a discutere secondo i metodi convenzionali, ma se gli argomenti non sono sufficienti sono altrettanto ben disposti a imporre la loro opinione. Dove i radicali sono al potere, questa imposizione è affidata alle forze in divisa, una realtà ben visibile in Paesi diversissimi fra loro come l'ultrarivoluzionaria Repubblica islamica d'Iran e l'ultraconservatrice monarchia wahabita della penisola araba. Ma l'imposizione poliziesca dei tabù dell'apostasia e della blasfemia giocava un ruolo anche nell'Egitto di Hosni Mubarak, dove il suo movimento politico, gli Ufficiali Liberi, nonostante gli ideali di modernità laica e le aspirazioni democratiche che sbandierava, ha stretto un'alleanza efficace con i semitollerati Fratelli musulmani. In altri Paesi ancora sono milizie non governative – ad esempio i Boko Haram in Nigeria – a farsi carico dell'imposizione forzata.

Ci sono anche le folle inferocite viste all'opera in vari luoghi, dall'Africa occidentale al Pakistan, e le bande di picchiatori.
I radicali hanno indirizzato la loro campagna contro l'apostasia e la blasfemia su varie categorie di individui, a cominciare dalle minoranze religiose. Nessuno si stupirà di sapere che per i cristiani che vivono in varie parti del mondo islamico questa sembra la nuova epoca dei leoni dell'antica Roma – stanno fuggendo in massa. In Sudan un governo islamista ha scatenato una guerra civile anche perché ha cercato di imporre ai cristiani e agli altri non musulmani delle regioni meridionali una versione spietata della shari‘a, e alla fine della guerra (anche se le violenze sembra che stiano ricominciando) il bilancio dei morti è di oltre due milioni di persone, di varie confessioni.
In Somalia gli islamisti considerano tutti i cristiani come apostati, e per questo uno dei gruppi islamisti ha invocato uno sterminio generalizzato. I cristiani subiscono persecuzioni anche in luoghi dove formalmente il Governo è laico e fa rispettare, in teoria, i diritti civili: è il caso dell'Algeria, dove, in risposta allo sdegno islamista contro i missionari, negli ultimi anni sono state esercitate pressioni governative su molte attività cristiane, spesso con il pretesto che i cristiani di Algeria sarebbero agenti di forze straniere. In Egitto i copti stanno iniziando a scappare, forse in gran numero.

Le pressioni più sistematiche si concentrano sui gruppi islamici eterodossi, come gli ismailiti, gli aleviti e gli ahmadi (perseguitati perfino in Indonesia, triste a dirsi), per non parlare dei rami collaterali dell'Islam, come i perseguitatissimi Baha'i. Inoltre, i militanti dell'Islam radicale tendono ad appendere l'etichetta di blasfemia al collo dei seguaci di quella, fra le due correnti principali della religione musulmana, che localmente si trova in minoranza, come i sunniti in Iran, dove la maggioranza è sciita, e gli sciiti in Pakistan e in Arabia Saudita, dove la maggioranza è sunnita. Di sicuro chiunque si sarà accorto che ormai da molti anni non passa quasi settimana senza che arrivi la notizia dell'ennesimo massacro indiscriminato di sciiti, a volte in una moschea, a volte a un corteo funebre: è un fenomeno molto accentuato in Iraq, ma anche in Pakistan e recentemente in Afghanistan. A volte interi gruppi etnici sono accusati di aver violato il tabù: la persecuzione dei cristiani in Algeria prende di mira in particolare i berberi, o cabili, in maggioranza musulmani ma con una certa percentuale di cristiani; gli islamisti sudanesi hanno accusato di apostasia i Nuba, mettendo in pericolo mezzo milione di persone (anche se non ci sono stati massacri generalizzati). Ovunque, le persecuzioni dei radicali si concentrano sugli umanisti, sui riformatori liberali e sui liberi pensatori dell'Islamslam. Illustri esponenti riformisti sono stati uccisi, e la persecuzione continua. Se seguite le notizie forse avrete notato il caso di un giornalista saudita di nome Hamza Kashgari, 23 anni, fuggito in Malaysia dopo aver pubblicato su Twitter tre messaggi riguardanti Maometto e che ora è stato rimandato in Arabia Saudita per rispondere di accuse di blasfemia, apostasia e ateismo, reati per cui è prevista la pena capitale.

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