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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 11:33.

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L'Oci ha lanciato infatti altre proposte, sottoposte alle Nazioni Unite, per condannare la diffamazione ai danni dell'islam, o "islamofobia", e queste proposte in certi casi sono sfociate in risoluzioni non vincolanti delle varie commissioni per i diritti umani dell'Onu o addirittura dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo un po', alcune democrazie occidentali hanno cominciato a irrigidirsi e le reazioni hanno indotto l'Oci a riformulare ingegnosamente le proposte, adottando un approccio più eclettico, per così dire, che consiste nel condannare in generale la diffamazione antireligiosa, come se dietro non ci fosse nessuna preferenza confessionale. Le risoluzioni condannavano "l'incitamento all'odio" e le "offese" nei confronti della religione, ma l'intento di fondo rimaneva invariato. Solo pochi mesi fa, nel novembre del 2011, un progetto iraniano, espresso nella «Dichiarazione e programma di azione di Teheran» del 2007, ha attirato altro consenso ancora, stavolta in favore di una risoluzione in difesa della "diversità culturale". Ma la retorica della "diversità culturale", come la retorica precedente sull'incitamento all'odio e le offese rivolte alle religioni in generale, rappresenta semplicemente un modo di più per chiedere la repressione con mezzi legali di qualunque cosa dia fastidio all'ideologia radicale.

Marshall e Shea sostengono con decisione che dopo tutti questi anni il progetto di mettere a tacere con mezzi legali le critiche in ogni parte del mondo è penetrato pian piano nel tessuto giuridico anche di Paesi che dovrebbero esserne immuni, e citano una serie di inquietanti episodi processuali, dalla causa intentata contro il più famoso romanziere francese, l'irriverente e scontroso Michel Houellebecq, obbligato a difendere di fronte a un giudice, nel 2002, il suo diritto di dichiarare l'Islam «la religione più stupida» (parafrasando quello che diceva Voltaire del cristianesimo, fra l'altro), ai problemi incontrati da uno dei più noti filosofi di Francia, il sobrio e rigoroso Alain Finkielkraut, anche lui oggetto di cause legali e perfino di minacce personali. È rassicurante ricordare che Houellebecq ha vinto la sua causa e che Finkielkraut è stato difeso nientemeno che da Nicolas Sarkozy: il repubblicanesimo francese non si abbasserà mai a irreggimentare le glorie della cultura transalpina. Ed è rassicurante anche apprendere che in Germania una rappresentazione dell'Idomeneo di Mozart, dove sono mostrate le teste recise di vari personaggi religiosi, fra cui anche il fondatore dell'islam, alla fine è andata in scena, dopo un momento di esitazione, in mezzo a un nervoso dispiegamento di poliziotti e scanner elettronici. Ed è rassicurante anche apprendere che negli Stati Uniti una piccola casa editrice si è fatta avanti per pubblicare il romanzo di Sherry Jones.

Vincere cause di questo tipo, però, può costare un bel po' di quattrini, e probabilmente una prospettiva del genere spegne in chiunque l'ardore per la difesa della libera espressione: è evidente nel caso dello scrittore canadese Mark Steyn, che ha dovuto difendersi a sue spese dalle querele, e nel caso di Daniel Scot, un pastore australiano che ha dovuto sostenere spese legali per centinaia di migliaia di dollari, secondo i suoi stessi calcoli. E poi c'è sempre la possibilità che una vittoria giudiziale, anche netta e incontestabile, lasci aperta la porta a sconfitte stragiudiziali: Marshall e Shea citano una causa del 2007, in Francia, contro il direttore del giornale satirico di sinistra Charlie-Hebdo, accusato di aver violato la legge per aver ripubblicato le vignette danesi, e debitamente assolto; ma pochi mesi fa, dopo che Charlie-Hebdo aveva annunciato un numero di satira sul movimento islamista, gli uffici parigini del settimanale sono stati devastati da un attentato incendiario.

Le questioni legali, e in parte anche gli episodi di violenza, mi sembrano comunque secondari rispetto a un fenomeno più generale (a livello mondiale) di autocensura del tutto volontaria, la tendenza a depotenziare certi argomenti giudicati sensibili o a evitare addirittura di pronunciare certe parole controverse, fingendo al tempo stesso di essere franchi e diretti. Tutti ormai avranno notato il velo di eufemismo che ha avvolto surrettiziamente la parola "moderato" quando questa viene applicata ai movimenti e ai leader islamisti. Un "moderato" è uno come Rachid Ghannouchi, il leader islamista tunisino, reduce dalla vittoria elettorale di ottobre, uno che nel corso degli anni ha parlato diffusamente delle «bande ebraiche, massoniche, sioniste e atee» e del «progetto satanico-talmudico» per creare un «nuovo ordine mondiale ebraico sulle rovine dell'ordine mondiale americano e occidentale», uno che ha definito le madri dei terroristi suicidi un «nuovo modello di donna» e più in generale ha parlato di «estinzione di Israele» o, in tempi più recenti e con terminologia più igienista, di «germe di Israele», da estirpare come la poliomielite. Ghannouchi è uno dei maggiori sostenitori mondiali di Hamas (gli islamisti palestinesi non sono mai stati molto ben forniti quanto a intellettuali, mentre Ghannouchi è un filosofo di grande cultura).
Anche Ghannouchi promette di rispettare le regole democratiche all'interno della Tunisia. Secondo gli standard islamisti, Ghannouchi è effettivamente un "moderato". Solo i germi del sionismo satanico-massonico devono temere lo sterminio per mano sua. Almeno per il momento! Ma come è possibile che la grande stampa occidentale abbia finito per accettare gli standard islamisti, al punto che ormai, da mesi, non passa quasi giorno senza dover leggere encomi della "moderazione" di Rachid Ghannouchi?

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