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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 11:33.

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Esorto i più ottimisti fra i miei lettori a dare un'occhiata ai filmati su YouTube di un sermone tenuto dallo shaykh Yusuf al-Qaradawi in piazza Tahrir nel febbraio del 2011, di fronte a una folla enorme. Il suo sermone fu uno dei punti di svolta della Primavera Araba, il momento in cui i Fratelli musulmani finalmente decisero di mostrare i muscoli di fronte a un vasto pubblico. Al-Qaradawi è il religioso sunnita più conosciuto e ammirato nel mondo grazie alla sua trasmissione evangelica su al-Jazira, al di là del suo status di teologo capo dei Fratelli musulmani. In quell'occasione dedicò gran parte del suo sermone a celebrare la prima fase della nuova rivoluzione, esortando il popolo egiziano a proseguire nella sua lotta. Ma il discorso toccò l'apice quando si discostò dalle questioni egiziane per toccare il problema palestinese: Qaradawi pregò Dio di poter «assistere alla conquista della moschea di al-Aqsa» a Gerusalemme; in un'altra traduzione non si parlava di «conquista» ma di «apertura»: il senso però era chiaro, in tutti e due i casi.

Qaradawi è famoso per aver concesso una benedizione religiosa ai terroristi suicidi e alle politiche portate avanti da Hamas. Da questo punto di vista assomiglia a Rachid Ghannouchi, suo collega nel Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca (ma Qaradawi è la figura di primo piano). Il titolo sbarazzino di «mufti delle operazioni di martirio» è qualcosa di cui Qaradawi si è autoinsignito in un accesso di humour macabro in diretta tv. L'invocata «conquista» o «apertura» della moschea di al-Aqsa, all'apice del suo sermone in piazza Tahrir, poteva significare soltanto il trionfo della jihad di Hamas. Qualcuno sostiene che non si sa che cosa comporterebbe una cosa del genere, ma è stato lo stesso Qaradawi a fornire qualche indizio: la jihad di Hamas significa il completamento di quello che Hitler cominciò molto tempo fa, agendo per conto di Dio; è un altro elemento del pensiero di Qaradawi, anche questo annunciato, insieme alla sua generale condanna del processo di pace, al suo sterminato pubblico televisivo. Quello che più mi colpisce del sermone di Qaradawi al Cairo è la reazione della folla a quelle ultime, accorate invocazioni. Una reazione oceanica. In alcuni di quei video sembra che un'onda gigantesca sollevi l'enorme piazza. Era qui che stava l'emozione rivoluzionaria: non per tutti gli egiziani, questo è ovvio, ma evidentemente per moltissime persone che hanno appena votato per uno dei partiti islamisti. Qui stava lo scopo della rivoluzione, apertamente dichiarato: non semplicemente il rovesciamento del faraone, ma la liberazione di Gerusalemme. La folla di piazza Tahrir è esplosa di emozione perché tantissime persone vedevano l'obbiettivo annunciato da Qaradawi come un'aspirazione trascendentale, una jihad spirituale e materiale al tempo stesso.

Eppure anche Qaradawi normalmente viene definito un "moderato". Perfino il suo sermone a piazza Tahrir è stato descritto e acclamato più volte come un esempio di "moderazione", senza il minimo accenno alla sua parte conclusiva. Come è possibile, quasi settant'anni dopo la sconfitta del nazismo, che un individuo del genere venga presentato come un "moderato", passando sopra alle sue invettive contro gli ebrei? E le omissioni tendono a essere sistematiche, come potete constatare con i vostri occhi leggendo alcuni dei saggi accademici più recenti, pubblicati dalle case editrici di prestigiose università, su persone come Qaradawi o Ghannouchi, o anche sul predecessore dell'uno e dell'altro, il teorico islamista Sayyid Qutb. I libri su questi personaggi sono scandalosi, nel loro complesso, per quello che omettono, vale a dire le espressioni più violente di fantasie e odi antisemiti. Silenced è il titolo del rapporto sui diritti umani di Marshall e Shea, e Self-Silenced dovrebbe essere il titolo da dare a un'analisi consuntiva di certi saggi di recente pubblicazione in Occidente.

Il problema dell'autocensura raggiunge livelli ancora più eclatanti. È la delicata questione di come i più potenti Governi occidentali siano arrivati a definire che cosa si può discutere e che cosa al contrario non può essere nemmeno menzionato. Così scrivono Marshall e Shea: «Nel 2008, negli Stati Uniti, il Dipartimento della Sicurezza interna e il Dipartimento di Stato hanno dato istruzioni ai loro dipendenti di evitare le parole "salafita", "wahhabita", "califfato" e "jihadista" in quanto considerate offensive dai musulmani se usate da non musulmani. Su raccomandazione di consulenti musulmani di cui non è stato fatto il nome si è anche rinunciato a usare la parola "libertà", sostituendola con "progresso". Nello stesso anno anche il ministero dell'Interno del Regno Unito ha smesso di usare il termine ‘terrorismo islamico', rimpiazzandolo con "attività anti islamica". Nel 2009, il segretario alla Sicurezza interna degli Stati Uniti ha sostituito ‘terrorismo islamico' con ‘disastri opera dell'uomo'. Il documento della Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti diffuso nel maggio del 2010, che pure negli anni precedenti diceva che ‘la lotta contro il radicalismo islamico militante è il grande conflitto ideologico dei primi anni del XXI secolo', ha rimosso ogni riferimento all'‘estremismo islamico'».
Notizie vecchie? Il libro di Marshall e Shea le fa sembrare nuove di zecca. I due autori dipingono un panorama mondiale fatto di censura e autocensura, e le scene di violenze e intimidazioni suggeriscono che dietro a questa propensione per un orwellianesimo burocratico, a Washington o a Londra, potrebbe esserci qualcosa di più di una semplice discrezione diplomatica. L'isteria indotta ad arte sulla blasfemia e l'islamofobia ha sicuramente assolto uno scopo militare. Proprio ora, dopo la pubblicazione del libro di Marshall e Shea, le proteste contro i roghi non intenzionali di copie del Corano avvenuti in Afghanistan in febbraio hanno provocato 29 morti fra gli afghani e l'uccisione di 6 soldati americani, e anche qualcos'altro: un fremito visibile fra gli alleati Nato in Afghanistan, un sentore di sconfitta militare.

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