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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2012 alle ore 17:23.

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I presidenti italiani pongono veti sui ministri, possono addirittura promuovere ribaltamenti dei risultati elettorali o governi d'emergenza del tutto privi di legittimità popolare, ma sempre nel pieno rispetto della lettera e dello spirito della Costituzione e nonostante le mini riforme politiche degli anni Novanta ci avessero convinto che spetta agli elettori scegliere direttamente il Governo e il premier. In realtà non è vero che il presidente della Repubblica italiana non abbia poteri. Semmai non esiste da nessuna altra parte che un presidente non eletto dal popolo abbia la quantità e la qualità dei poteri politici a disposizione del Quirinale. Il capo dello Stato è titolare dei due strumenti politici fondamentali in qualsiasi sistema democratico: spetta a lui sciogliere le Camere e a lui nominare il presidente del Consiglio, anche non tenendo conto del risultato delle urne.

Il nostro capo dello Stato ha il potere di convocare il Parlamento in seduta straordinaria e di indirizzare il dibattito politico inviando messaggi formali. Il capo dello Stato, se gli garba, può rimandare alle Camere una legge approvata dai rappresentanti del popolo. I disegni di legge del Governo devono essere autorizzati dal presidente, il quale è anche il capo delle Forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa, cioè è titolare di uno degli strumenti più importanti di politica estera, oltre che di sicurezza nazionale. In quella sede, e con questi poteri, Carlo Azeglio Ciampi ha impedito al governo Berlusconi di partecipare all'intervento militare in Iraq, al contrario di quanto fece Scalfaro con il governo D'Alema ai tempi del Kosovo. Il presidente nomina cinque senatori a vita con cui può cambiare la maggioranza al Senato. Può sciogliere i consigli regionali, presiede l'organo di autogoverno della magistratura, nomina un terzo dei giudici costituzionali e può annullare reato e pena con la grazia. Sono poteri pienamente politici che sarebbe meglio fossero esercitati alla luce del sole, in modo moderno da un vero leader politico. Napolitano lo sta facendo, con molto garbo e grande senso dello Stato, e non importa che non sia stato eletto al Quirinale dal corpo elettorale. Il famoso titolo dell'Espresso, «Re Giorgio», lasciava intendere che Napolitano fosse andato in qualche modo oltre la Costituzione. Invece no, la Costituzione era stata disattesa nel passato.

Accenni presidenzialisti, malgrado si dica il contrario, sono presenti nella lettera della Costituzione. C'è di più: la necessità del governo tecnico di Mario Monti di trovare di volta in volta in Parlamento i voti per le sue proposte ricorda, di fatto, il sistema americano con la netta divisione dei poteri più che un sistema tipicamente parlamentare.
C'è da ripartire da zero. Modificare questo o quel potere, assegnarne o cancellarne altri, limitare le prerogative di questo o quell'organo è pura alchimia costituzionale, gioco a incastri per secchioni della politica. Ma le Costituzioni non sono puzzle. La riforma del titolo V della Costituzione, la successiva e sconclusionata introduzione di qualche principio federalista, l'eterno dibattito sul ruolo della magistratura e ora la discussione sul pareggio di bilancio e sulla libertà d'impresa sono cose che magari prese singolarmente hanno un senso, ma aggiunte a un'organizzazione dello Stato centralista e consociativa diventano facilmente indigeste.

Se il problema fosse soltanto quello del funzionamento degli organi costituzionali, non saremmo neanche messi male. Piero Ostellino sostiene da anni, pressoché solitario, che la causa principale del ritardo del nostro Paese sia la struttura socio-economico-costituzionale ancora collettivista, dirigista, corporativa. Abbiamo un ordinamento giuridico che non si fonda sull'individuo ma sul lavoro, su un'astrazione collettiva stabilita dall'articolo 1 della Carta. Secondo Ostellino sono i principi della Costituzione, ancora più che le regole, a essere superati. Difficile dargli torto. L'articolo 2 chiede ai cittadini «l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; il 4 il «dovere di svolgere... un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»; il 33 vincola a «un esame di Stato» l'abilitazione a svolgere una professione; il 35 subordina «la libertà di emigrazione» all'«interesse generale»; il 41 dice che «l'iniziativa economica privata è libera», ma «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale»; il 42 statuisce che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che... ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale».
Il problema, scrive Ostellino, è che spetta a chi detiene il potere stabilire che cosa siano «il progresso della società», «l'interesse generale», «l'utilità e la funzione sociale». Le potenzialità illiberali di questi principi astratti, più che la Costituzione più bella del mondo, ricordano «l'edificazione del socialismo» in Unione Sovietica e «il pensiero del Duce» nell'Italia fascista.

Il presidente Giorgio Napolitano ci scuserà se qui a IL, grazie a una celebre copertina dell'Economist su un nostro ex premier, ci siamo sinceramente convinti che la Costituzione del 1948 e gli acrobatici tentativi di modificarla a tavolino sono unfit to lead Italy. Inadeguati a guidare l'Italia.

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