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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2012 alle ore 15:33.

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Lungi dal porre astratte questioni storiche, quelle domande chiedevano di spiegare «l'impressionante contrasto tra il messaggio del "discorso della montagna" e le inquisizioni, i roghi, le guerre di religione» (pag. 18), interrogavano sul perché i cristiani da perseguitati fossero diventati persecutori, e per di più persecutori di altri cristiani, invitavano «a riflettere sul fallimento del messaggio evangelico di fratellanza e di pace» (pag. 45), sull'uso della violenza per motivi di fede e sulle buone o cattive ragioni della tolleranza, sollecitavano una risposta sulle sfere di competenza dello Stato e della Chiesa, sul ruolo politico del Cristianesimo e in generale sul rapporto tra politica e religione.

Problemi di rovente attualità, poco adatti a letterati oziosi, anche perché su di essi – com'è noto – si era pronunciato l'empio Niccolò Machiavelli, teorizzando che «uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione» (cap. XVIII). Se nel Principe aveva esplicitamente dichiarato di non volersi occupare dei principati ecclesiastici «perché, sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosuntuoso e temerario discorrerne» (cap. XI), nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio aveva dedicato un intero capitolo a dimostrare di quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana è rovinata, indicando nel papato la causa prima della disunione politica e del fatto che i suoi abitanti fossero diventati «sanza religione e cattivi» (cap. I, 12).

Quasi tutte contrassegnate da scrupoli di devota compunzione tridentina, le risposte ai quesiti posti dal Da Mula si districavano con qualche equilibrismo dalle molte trappole che vi erano nascoste per riaffermare quod erat demonstrandum, la superiorità del Cristianesimo sulle altre religioni, il diritto dovere della guerra contro gli eretici, il primato della ragion di Chiesa.

Pur nella prevedibile dimensione apologetica che ne contrassegnava il comun denominatore, tuttavia, nelle loro pieghe si insinuavano anche dubbi, note dissonanti, formule sfumate e talora ambigue, che nutrivano un dibattito autentico di cui Michela Catto in Cristiani senza pace ricostruisce con sagacia le molteplici sfaccettature.

Pur tutti ecclesiastici, e tutti di notevole profilo culturale, gli interlocutori di quella discussione assunsero infatti posizioni diverse, ora schierati su posizioni di intransigente difesa della guerra senza quartiere contro i nemici della vera fede (Tommaso Aldobrandini, Fabio Albergati, Lucio Maggio), ora pronti a chiedersi se a convertire gli eretici più che le armi della guerra non valessero quelle spirituali, «le buone opere, la santità, l'innocenzia, l'integrità de la vita», la restaurazione del Cristianesimo primitivo (Fabio Benvoglienti, ma anche Rinaldo Corso e Gaspare Ricciulli dal Fosso, che non esitava a scorgere una delle cause delle eresie nella «poco honesta vita de' prelati» o nella «poca cura che mostrano i vescovi ne' loro offitii»), ora più sensibili alle questioni propriamente politiche (Uberto Foglietta, Giovan Francesco Lottini).

Michela Catto spiega assai bene come quella disputa offra in realtà «un esempio su come si potevano affrontare temi dibattuti in tutta Europa nel cuore della corte romana del Cinquecento» (pag. 48) e ne coglie il significato storico nella testimonianza che essa offre «di una fase di transizione tra due epoche, il passaggio di un gruppo di intellettuali dall'Umanesimo alla Controriforma» (pag. 127).

Il che è senza dubbio vero per molti di loro, anche se forse per alcuni fu anche un modo per conservare qualche frammento di coerenza con un passato vissuto sotto il segno di sensibilità ed esperienze religiose poste al bando nell'Italia postridentina. Rinaldo Corso, per esempio, era stato editore e commentatore delle Rime di Vittoria Colonna, ormai giudicata un'eretica dal Sant'Ufficio, e Gaspare Ricciulli era stato legato a molti eterodossi, uno dei quali nel 1551 lo aveva denunciato al Sant'Ufficio come «lutherano». Ennesima riprova delle molteplici eredità che la Controriforma portava con sé.

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