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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2012 alle ore 20:46.

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Questo è il nodo: il linguaggio jazz in un certo senso si è cristallizzato. Ormai abbiamo a che fare con un'altra musica classica. Fino a che punto si può innovare?
Non mi piace ciò in cui oggi hanno trasformato il jazz. Quando ho cominciato negli anni Settanta, periodo di grande sperimentazione, riuscivi ancora a percepire che questa era nata come musica da ballo. Con Cherry, per esempio, lo sentivi. Adesso pare che il jazz sia diventato una roba accademica, aristocratica, noiosa. Mi sento dire a volte che suoniamo musica commerciale. Dico: siamo impazziti? Avete idea di cosa significhi musica commerciale?

A proposito: lei vanta un curriculum pieno di illustri collaborazioni pop. In Italia ha suonato tra gli altri con Ivano Fossati, Pino Daniele, Adriano Celentano. È più difficile dividere il palco con un jazzista o con un artista pop?
Dividerei il discorso tra i musicisti che ti lasciano libero di esprimerti e quelli che vogliono da te cose ben definite. Tra i primi ricordo Joe Zawinul: una persona di un'apertura incredibile, mi incoraggiava ad andare ogni volta in direzione opposta alla volta precedente. In tanti invece vogliono una cosa precisa. E lì mi sforzo di mediare: io porto un contributo che, in parte, è quello della musica indiana tradizionale, della mia cultura. Bisogna intendersi e, per fortuna, spesso ci si riesce. Con Celentano, per esempio, mi sono divertito molto a suonare nel brano «La mezza luna» del suo ultimo album. Siamo uniti da stima reciproca, ha una sensibilità fuori dal comune. Ce ne fossero di artisti come lui in circolazione.

Ha la sensazione che qualcuno la chiami solo per nobilitare produzioni pop discutibili?
Certo. Fa parte del gioco strano a cui facevo riferimento prima: la musica contemporanea è dominata dall'apparenza. Vale per il jazz, come per il pop. Adesso la spendibilità dell'artista, la promozione attraverso Facebook per inseguire i giovani hanno preso il sopravvento. Una volta la musica era la «carne», promozione e marketing le «patate». Il rapporto, purtroppo per noi, s'è invertito: viviamo di quello che dovrebbe essere il contorno. Che tristezza. Tendenzialmente ho deciso di accettare solo le collaborazioni che mi intrigano.

Parliamo della sua attività da solista. Sta lavorando a qualche nuovo progetto?
Ho in mente di fare un disco che rappresenti un omaggio alla tromba. Ai grandi trombettisti jazz della storia: a Don Cherry e a Miles Davis, innanzitutto. E a grandi trombettisti ancora in attività: coinvolgerò la leggenda vivente Hugh Masekela, il mio amico Paolo Fresu, poi Wallace Roney. Mi piacerebbe esplorare tutti i territori musicali possibili in compagnia di questo strumento, compresa la musica classica. Per questo ci sarà il violinista italiano Carlo Cantini che per me è un punto di riferimento.

C'è già un titolo?
Non ancora. Con me il titolo viene sempre in un secondo momento, prima si suona. Potrei però chiamare il disco «Acqua pazza». Esprime abbastanza bene il mio approccio alla musica. Oltre che il mio amore per l'Italia e la cucina italiana.

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