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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2012 alle ore 08:18.

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Se i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, è probabile che non scriverei queste parole. Preconizzavano (e di fatto praticavano) l'eutanasia per chi aveva la mia stessa malattia. Su un manifesto nazista del 1938 che promuoveva un programma di eutanasia obbligatoria, c'era un medico in piedi accanto a un paziente con il morbo di Huntington e la scritta «Durante la sua vita, questa persona con difetti congeniti costa 60mila Reichsmark alla comunità. Concittadini tedeschi, sono anche soldi vostri.»
Questa interpretazione in chiave eugenetica delle sue teorie avrebbe depresso Darwin, che sulla questione era stato molto chiaro. «L'aiuto che ci sentiamo spinti a dare ai derelitti è per lo più il risultato incidentale dell'istinto di simpatia», scriveva nell'Origine dell'uomo, un istinto sociale che «non possiamo ostacolare, anche se ce lo suggerisse la dura ragione, senza deteriorare la parte più nobile della nostra natura». Il morbo di Huntington attacca lo spirito portandogli via ogni speranza, eppure non lo sconfigge perché si appella al nostro senso di umanità migliore. Lo dimostrano l'instancabile pazienza di chi ci cura, la dedizione straordinaria di ricercatori e medici. Su questo campo di battaglia, le qualità spirituali brillano di più e nel farlo danno a tutti noi una ragione di esistere.
Il diritto di curare gli infermi, di alleviarne le sofferenze, è altrettanto sacro di quello di avere figli. Non c'è né individuo né organizzazione che possa vantare una superiorità morale se ostacola chi può migliorare la qualità della vita.
A quelli che parlano di un "attacco mostruoso ai diritti umani" mosso dalla ricerca sulle staminali e dai suoi esperimenti da "Frankenstein", chiedo di avere il coraggio delle loro convinzioni. Di discutere pubblicamente sulla vera rilevanza di tale ricerca in termini di diritti umani e di dignità umana con me che ho visto distrutto l'orgoglio di mio padre, e non solo devo affrontare un futuro altrettanto terribile, ma anche preparare la prossima generazione ad affrontarlo.
Sono stato testimone di una dozzina di guerre, cinque rivoluzioni, quattro terremoti e più attacchi suicida di quanto riesco a contare. Mi hanno insegnato una dura lezione. Gli esseri umani perdono l'orientamento morale, il proprio equilibrio nella società, quando sono privati di due cose: la dignità e la speranza.
L'indegnità inflitta dal morbo di Huntington a mio padre era evidente come in ogni altra persona che ne soffre. Da militare fiero, dovette guardare gli amici e i parenti trasalire davanti al suo corpo e alla sua mente che si contorcevano fino a diventare irriconoscibili, mia madre spezzarsi i polsi nel sollevarlo dalla vasca da bagno, e infine trovare nella morte un benedetto sollievo dal tubo infilatogli in gola per far le veci del suo stomaco.
E che speranza avrà mai una famiglia come la nostra? La risposta dipende non soltanto dai ricercatori e dalla loro nuova scienza, ma anche da legislature, governi e chiese che detteranno alle nostre società come trattare gli infermi nel 21mo secolo. Nessuno di questi gruppi dovrebbe sottovalutare il significato della ricerca per le famiglie che soffrono di malattie incurabili e, in tutto il mondo, cercano nei media frammenti di notizie uscite dai laboratori. Nell'oscurità totale, basta un flebile barlume a ridare forza allo spirito. Noi comunità di famiglie con il morbo di Huntington abbiamo un debito di gratitudine con tutti quelli che hanno avuto il coraggio di non piegarsi al dogma. Sono consapevoli, giustamente, di fatto progredire le conoscenze mediche. Forse per me è troppo tardi, ma in nome della prossima generazione che si misurerà con questa malattia e di quelli che ancora devono nascere, li ringrazio.
(Traduzione di Sylvie Coyaud)
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