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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2012 alle ore 08:16.

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È un tardo pomeriggio degli anni Sessanta e c'è molta agitazione in casa Debenedetti: sta arrivando Sartre per una visita. Ma il grande critico sembra avere altro per la testa. E al figlio Antonio, che gli parla del suo lavoro di recensore, addita l'esempio di due giovani «che stima moltissimo», al fine di migliorarne la sintassi non solo critica: Cesare Garboli e Luigi Baldacci. È lo stesso Antonio che ce lo racconta nel suo bellissimo Giacomino (1994): è stupefacente come Debenedetti, con precoce intelligenza, sappia fare i nomi giusti di quelli che saranno i protagonisti veri della critica letteraria italiana del secondo Novecento. Ne sono sicuro: alle spalle ci sono, grandissimi, Longhi, lo stesso Debenedetti, Contini, Macchia, davanti nel futuro chissà, ma quella che si giuoca tra Garboli e Baldacci – fedeli nell'inimicizia – è una partita cruciale per la cultura letteraria italiana. Ecco: se Garboli – con una prosa la più misteriosa che ancora ci è dato di leggere – si associava scrittori e scrittrici, quelli frequentati di persona, per viscerale empatia, per sortilegio di metafore e spiazzamenti, Baldacci resta il campione di un'auspicata oggettività, d'una razionalizzazione costante di dati e valori, critico di parossistica intelligenza epperò di prosa sontuosamente quaresimale, prodigiosamente colto e con informazioni sempre di prima mano, capace d'utilizzare tutti i metodi senza feticizzarne alcuno, sovvertitore di idee correnti, naturalmente incapace, nell'interpretazione, di lasciare le cose come le aveva trovate.
Già, Luigi Baldacci: il maestro e amico, che dissimulava la bontà sotto il proverbiale cattivo carattere, morto esattamente dieci anni fa, il 26 luglio, la sera prima del suo settantaduesimo compleanno. Non è stato facile stanarlo dal suo riluttante esilio nella casa-museo stipata di maschere africane e di corruschi secenteschi (a cominciare da quel Cecco Bravo, che lui stesso riscoprì e valorizzò). Non fu facile stanarlo dall'arreso nichilismo che gli faceva considerare di nulla necessità la vasta mole di articoli accumulati in cinquant'anni di critica militante. Non fu facile, insomma, costringerlo a raccogliere quella materia smisurata e smisuratamente innovativa, insieme a Benedetta Centovalli, che per Rizzoli gli ha pubblicato libri su cui le giovani generazioni, c'è da giurarlo, si dovranno interrogare ancora: La musica in italiano. Libretti d'opera dell'Ottocento (1997), Il male nell'ordine. Scritti leopardiani (1998), Novecento passato remoto. Pagine di critica militante (2000), Trasferte. Narratori stranieri del Novecento (2001), Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani (2003), I quadri da vicino. Scritti sulle arti figurative (2005). L'archivio giace ancora inesplorato, ricco di chissà quanti libri latenti, senza dire dell'epistolario: ma chi dovrebbe occuparsene, almeno per eredità, non sembra purtroppo preoccuparsene. E nemmeno per il decennale gli editori si sono ricordati di pubblicare qualche studio o riproposta.
Che critico è stato, dunque, Baldacci? Uno sguardo appena ai titoli citati ci dice subito quanto grande fosse l'apertura di compasso delle sue competenze: librettistica e storia dell'arte, Ottocento e Novecento, italiano e straniero. Cui bisognerà aggiungere il Cinquecento degli inizi: per non dire della storia della critica e dell'impegno quasi quotidiano sulla più stretta contemporaneità. In effetti, il suo giovanile pendolarismo tra De Robertis, con cui si era laureato, e Russo, che lo ospitò giovanissimo su «Belfagor» – due maestri diventati nemici e che lui stesso fece riconciliare – dice già molto della sua duplice e precoce vocazione, di quel suo specialissimo "saper leggere" tra testo e contesto: che coniugava con disinvoltura l'analisi al microscopio e la fotografia panoramica. Con la stessa implacabile lucidità, Baldacci poteva applicarsi a un sonetto di Carducci, con gli strumenti del più aggiornato strutturalismo, per approdare però a quel giudizio di valore che lo strutturalismo aveva espulso, e poi magari prendere un intero secolo di petto, per riscriverne paradigmi e gerarchie. Basterebbe pensare alle vedute dall'alto che ci ha dato dell'Ottocento e del Novecento. Non solo l'Ottocento del Leopardi di specialissimo nichilismo o Pascoli, di Foscolo o De Roberto, ma quello minore di Giusti, Tommaseo o Rapisardi. Non solo il Novecento dell'immenso Tozzi, ma quello di Papini e Soffici, dei primi Palazzeschi e Bontempelli, di Borgese, Savinio e Malaparte, e persino della screditata Deledda.
Di certo, l'Ottocento progressista e nichilista, «porta, chiave, piedistallo» del Novecento, aveva aperto quasi tutte le questioni che il Novecento lasciò poi irrisolte o rimosse: quel Novecento che avrebbe dato il meglio di sé nei suoi primi e remoti trent'anni. Ma, occorre aggiungerlo, la sua predilezione per le avanguardie non gli impediva di denunciare il conformismo e la sterilità delle neoavanguardie: consapevole che non si può tirare due volte il sasso nella stessa vetrina. Ecco perché a Gadda preferì Dossi e Imbriani, a Calvino Bontempelli, a Tomasi di Lampedusa di sicuro De Roberto: essendo già scritto in quegli ottocenteschi il destino epigonale dei loro eredi. E ebbe la spudoratezza di considerare Moravia – persino l'ultimo – Soldati e Piovene, Bassani e Cassola, scrittori decisivi e tutt'altro che fuori gioco. Per non dire di poeti come Valeri, Betocchi e Cattafi. E si potrebbe continuare a lungo. Che critico e che uomo fu, insomma, Baldacci? Mi pare di intravvedere almeno un accenno di risposta in una bellissima foto di una plaquette pubblicata dagli amici subito dopo la morte, Per Baldacci. Il critico, giovane e bello, accenna a tirarsi su gli elegantissimi pantaloni per abbassarsi forse ad accarezzare un gattino che è, della foto, quello che Barthes direbbe il punctum. Già, gli animali: che Baldacci riteneva, insieme ai bambini, i più vicini, biologicamente vicini, alla verità della vita: di quel nulla da cui misteriosamente veniamo e in cui, altrettanto misteriosamente, sprofonderemo. Tutta la sua vita di uomo e scrittore è consistita in questo processo di avvicinamento alle nude evidenze della biologia (corpo, voce, avvertimento del tragico), in questo portentoso sforzo di autenticità, al di là di ogni sovrastruttura ideologica. In questa disillusa e appassionata fedeltà a se stesso, senza infingimenti, né cedimenti.

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