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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2012 alle ore 07:46.

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L'epifania del North Dakota ha aperto una nuova corsa all'oro nero, poiché il sottosuolo americano nasconde almeno una ventina di grandi giacimenti di shale oil, alcuni di dimensioni paragonabili a quello di Bakken. È il caso di Eagle Ford, in Texas, subito diventato una meta bollente dei nuovi pionieri del petrolio, che oggi produce oltre 300.000 barili al giorno di greggio tight, mentre non ne produceva un solo barile nel 2010. E poi ci sono i giacimenti del Permian Basin (Texas), di Utica (Nord-Est), Niobrara (Colorado) e altri ancora. Ovunque l'attività si è fatta frenetica, con centinaia di pozzi perforati ogni settimana. E gran parte di questa produzione è redditizia anche con prezzi del petrolio compresi tra i 50 e i 65 dollari a barile.

Il boom dello shale ha permesso agli Stati Uniti di riconquistare il predominio mondiale nella produzione di gas. Entro il 2020, inoltre, potrebbe consentirgli di diventare il secondo produttore al mondo di petrolio a ridosso dell'Arabia Saudita, grazie a una produzione di shale e tight oil che punta a superare i 4 mbg entro questo decennio – più del doppio di quanto produceva la Libia prima della caduta di Gheddafi, molto più di quanto producono oggi Iran o Iraq.

Ma c'è molto di più. La corsa alla nuova frontiera americana del gas e del petrolio è diventata il singolo fattore di crescita economica e occupazione più forte per gli Stati Uniti, con effetti a cascata su molti settori produttivi. Allo stesso tempo, ha aperto una dimensione nuova per gli idrocarburi del nostro pianeta. I giacimenti di shale nel mondo, infatti, sono ancora in gran parte sconosciuti, ma potrebbero essere immensi e, soprattutto, sono vergini. Inoltre, la combinazione di perforazione orizzontale e fracking può consentire di estrarre molto più gas e greggio anche da giacimenti tradizionali, da cui oggi si riesce a estrarre in media soltanto il 35 per cento degli idrocarburi. Tuttavia, la rivoluzione non è immune da problemi e dilemmi.

Negli Stati Uniti, la mancanza di sistemi adeguati di trasporto, i calcoli economici dei raffinatori e il sostanziale divieto di esportare greggio (per ragioni di sicurezza nazionale) stanno creando molti ostacoli a uno sviluppo ancora più impetuoso dello shale oil. Di converso, il crollo dei prezzi del gas ha provocato un dimezzamento dell'attività sul fronte dello shale gas. In secondo luogo, non è detto che il successo statunitense sia replicabile su scala mondiale, almeno in tempi rapidi.

Per ciò che sappiamo, potrebbero esistere immensi giacimenti shale e tight in molte parti del mondo, ma si conoscono con buona approssimazione solo quelli degli Stati Uniti. Solo negli Stati Uniti e in Canada, inoltre, esistono mezzi di perforazione sufficienti a operare la fratturazione idraulica su vasta scala: un fattore critico, poiché i giacimenti shale e tight richiedono una perforazione intensiva per mantenere e aumentare la propria produzione. A complicare le cose, solo negli Stati Uniti i diritti minerari sulle risorse del sottosuolo sono in mano a privati cittadini (nella quasi totalità del resto del mondo appartengono solo agli Stati), che pertanto hanno un forte incentivo a venderli o affittarli a compagnie petrolifere. Infine, solo negli Stati Uniti (e in Canada) esistono una miriade di piccole e medie società petrolifere pronte a rischiare tutto inseguendo il sogno di un successo ritenuto impossibile dai più, e un mercato finanziario pronto a sostenerle.

Il dilemma più delicato della nuova frontiera degli idrocarburi, tuttavia, riguarda l'ambiente. Secondo accuse che si sono moltiplicate negli ultimi anni, le tecniche impiegate per l'estrazione di petrolio e gas da formazioni shale e tight – soprattutto la fratturazione idraulica – provocano l'inquinamento delle falde acquifere e perfino terremoti, oltre a utilizzare troppa acqua e a generare grandi quantitativi di acque reflue molto nocive. L'eco di queste preoccupazioni ha raggiunto l'Europa, dove la Francia ha vietato il fracking, mentre altri Paesi stanno pensando di farlo (3). Tuttavia, i casi documentati di danni alle falde sono pochissimi: su oltre un milione di operazioni di fracking negli Stati Uniti dal 1947 (anno in cui la tecnologia fu usata per la prima volta) a oggi, ve ne sono solo qualche decina, probabilmente legati all'impiego di pratiche non corrette di perforazione da parte di piccoli pionieri che puntavano ad accelerare i tempi e contenere i costi delle loro scommesse.

Quanto ai terremoti, se ne sono registrati alcuni in Ohio alla fine del 2011, in aree dove si effettuava fracking. Tuttavia, la fratturazione dei pozzi in Ohio è mirata a stoccare acque reflue provenienti da molte parti degli Stati Uniti, un'attività che comporta molti più rischi di quella petrolifera. Le acque "sparate" e stoccate in enormi quantità sotto terra, in effetti, possono provocare un distacco delle faglie e il loro scivolamento, e quindi piccoli terremoti. L'uso di acqua nel fracking è sì un problema, ma molto più ridotto (dall'1 al 3 per cento del consumo totale di acqua) rispetto a quello generato da altri impieghi smodati dell'oro blu, a partire da quelli relativi all'agricoltura o al settore civile – che da soli assorbono oltre il 70 per cento dell'acqua consumata nelle zone dove si pratica il fracking.

È vero, infine, che l'estrazione di idrocarburi da formazioni shale e tight genera grandi quantità di acque reflue contenenti minerali tossici e perfino scorie radioattive, il cui trattamento ha rivelato una serie di problemi. Il più insidioso riguarda ciò che resta una volta che l'acqua è stata riutilizzata o è evaporata, cioè metalli tossici o scorie radioattive, la cui gestione ha ancora costi molto elevati e comporta rischi significativi.

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