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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2012 alle ore 08:17.

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I leader finanziari e le potenze economiche europee hanno sicuramente deciso provvedimenti sbagliati o nel momento sbagliato, ma anche se fossero stati corretti e tempestivi resterebbe la questione del processo democratico. Per esempio una cosa fondamentale come i servizi pubblici, pilastri essenziali dello Stato previdenziale europeo, non può essere lasciata al giudizio unilaterale di esperti finanziari (per non parlare delle agenzie di rating spesso poco accurate) senza un ragionamento pubblico e il consenso delle popolazioni coinvolte. È certamente vero che le istituzioni finanziarie contano per il successo o il fallimento delle economie, ma la loro posizione può avere una legittimità solo attraverso un processo pubblico di discussione e di persuasione, con argomenti, contro-argomenti e contro-contro-argomenti.
Se la democrazia è uno dei grandi impegni presi dall'Europa negli anni Quaranta, l'altro è stato la sicurezza sociale, la necessità di evitare intense privazioni. Anche se tagli feroci alle fondamenta dei sistemi europei di giustizia sociale fossero inevitabili (non credo, ma mettiamo pure che lo siano) è necessario convincerne la popolazione, invece di tagliare per decreto. Eppure sono stati spesso imposti a dispetto dell'opinione pubblica. ...
Per capire perché Keynes è una guida inadeguata alla soluzione della crisi economica europea, dobbiamo chiederci «quale visione di una buona società aveva l'economista Keynes?». Com'è risaputo, disse – di nuovo con una certa accuratezza – «che è bene pagare lavoratori per scavare buche e poi per riempirle perché ciò aumenta la domanda e combatte la recessione». D'accordo, ma Keynes aveva ben poco da dire sugli impegni sociali che uno Stato dovrebbe assumersi, sullo scopo della spesa pubblica, oltre a quello di intervenire per rafforzare la domanda del mercato. Sorvolò sulla disuguaglianza economica, fu di una straordinaria reticenza sull'orrore della povertà e delle privazioni, era poco interessato alle esternalità e all'ambiente, e trascurò del tutto il tema sul quale si concentrò invece il suo avversario e rivale A. C. Pigou: L'economia del benessere, titolo del suo libro più famoso e di sicuro più profondo.
È stato Pigou, che viene ritenuto di destra, a dare il via alla misura della disuguaglianza economica, ad analizzare a lungo la natura e le cause della povertà, a scrivere a lungo sulle esternalità, sul degrado ambientale e sulla necessità per le economie statali di tentare di rimediare agli errori compiuti dall'economia di mercato nell'allocazione delle risorse.
La messa in discussione delle attuali politiche finanziarie in Europa nasce da ragioni economiche che vanno ben oltre Keynes (mentre ne incorporano alcune idee), nasce dalle ragioni politiche e sociali alle quali accennavo. Questo scetticismo non intende affatto mettere in dubbio la necessità di ridurre l'aggravio del debito pubblico in tempi appropriati. Una buona economia però riguarda non solo l'obiettivo da raggiungere ma anche che cosa funziona, dove e quando.
Se a questo argomento economico aggiungiamo che da tempo l'Europa cerca una forma di giustizia sociale e – preoccupazione più immediata – il rischio fatto incorrere al senso di solidarietà europea, diventa ovvio che i recenti interventi finanziari sono stati disastrosi. Non vuol dire che l'impegno per la giustizia sociale prevale sempre e comunque, ma che non può essere spazzato via dalle decisioni unilaterali di leader finanziari, qualunque posizione eccelsa o modesta occupino nel proprio limitato ambiente. Resta sempre il bisogno di esaminare razionalmente ciò che un Paese può e non può permettersi (tenuto conto di tutti i fattori, comprese le variazioni nella composizione per fasce di età della popolazione), una cosa assai diversa dal controllare ciò che un Paese può permettersi con una gestione finanziaria ed economica inefficiente – come quella subita dall'Europa negli ultimi anni – e con idee confuse sul tasso di cambio, sulle esigenze del mercato e sulla competitività economica.
Il principio guida dovrebbe invece essere quello specificato con molta chiarezza da Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni. Una buona economia politica, diceva, deve avere «due obiettivi distinti»: il primo, procurare un reddito o una sussistenza abbondante alla popolazione, o più esattamente renderla in grado di procurarsi da sé tale reddito o sussistenza; il secondo, fornire allo Stato o alla comunità (commonwealth) un reddito sufficiente per i servizi pubblici.
Un punto finale, e importante, è che una considerazione seria dei tipi di riforma necessari in Europa è stato ostacolata – invece di aiutata – da una confusione crescente tra la riforma di cattivi sistemi amministrativi e l'austerità intesa come tagli spietati ai servizi pubblici e allo Stato sociale. All'Europa servono riforme di svariati tipi, arginare l'evasione fiscale e il favoritismo praticato dai funzionari pubblici nell'esercitare il potere dato loro dalla società, regolamentare le banche che tendono a operare in maniera irresponsabile (o peggio ancora, a perseguire senza intralci il guadagno, soprattutto sotto forma di profitti a breve termine), modificare accordi economicamente insostenibili sull'età pensionabile. Per colpa di un'analisi confusa, i requisiti della presunta disciplina fiscale hanno amalgamato riforme e austerità. Un esame attento della domanda di giustizia sociale avrebbe invece fatto considerare in maniera ben diversa le riforme indispensabili e i tagli indiscriminati ai servizi pubblici. Anche se un pensiero economico rozzo ha eliminato la distinzione, potrebbero ristabilirla discussioni pubbliche adeguate, cioè un «Governo attraverso la discussione».

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