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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2012 alle ore 08:01.

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Chi non ha presente quest'aspetto autoreferenziale – diremmo postmoderno – dell'opus springsteeniano, rischia di fare confusione quando si tratta di distillarne i "messaggi". Nel 1984, Ronald Reagan scambiò Born in the Usa – una delle canzoni più disperate sull'America del dopo Vietnam – per un inno patriottico, proponendo Bruce Springsteen come modello conservatore per le giovani generazioni.
Qualche giorno fa, Barack Obama è sceso dal palco della convention democratica sulle note di We Take Care of Our Own, non rendendosi conto che quel «ci prendiamo cura di noi stessi», che nel testo viene subito dopo il verso «nessuno ti aiuta, la cavalleria è rimasta a casa», deve essere inteso piuttosto come «badiamo soltanto a noi stessi», e che subito dopo Springsteen – che pure ha sostenuto Obama durante la campagna del 2008 – canta che «la strada lastricata di buone intenzioni è diventata un ossario».

Tutt'altro che un progressista
In realtà, Bruce Springsteen è tutt'altro che un progressista. È, piuttosto, un radicale pessimista, dominato da un'idea maîtresse: che l'uomo ha un destino scritto da cui non può fuggire («Si ereditano le fiamme, si ereditano i peccati», canta in Adam Raised a Cain). Altro che Woody Guthrie! La sua visione della storia assomiglia a quella di un De Maistre... L'unica cosa che può fare l'eroe springsteeniano è vivere, malgrado tutto. «Chi vive resiste», diceva Georges Sorel. Nella scena finale di Furore – il film di John Ford che Springsteen tradurrà in The Ghost of Tom Joad – la madre del fuorilegge dice: «Noi siamo la gente che vive. Non possono spazzarci via. Non possono batterci. Noi andremo avanti per sempre, perché noi siamo il popolo».
Sì, ma avanti dove? Dove il destino, non il popolo né la volontà individuale, ti porta, almeno a scorrere il canzoniere del Boss. Su questa terra non c'è alcuna possibilità di riscatto, come ci mostra la parabola dei due innamorati di Thunder Road, quelli che sognavano di fuggire da «questa città piena di perdenti», e che in The River ritroviamo già separati e disoccupati a chiedersi se «un sogno irrealizzato è una bugia o qualcosa di peggio».

Resta soltanto la speranza nell'altro mondo: «Siamo diretti nella terra di Canaan», canta lo Springsteen del 2012 in Rocky Ground; una «terra di speranza e di sogni» a cui sono già pervenute le tre voci che in We Are Alive ci giungono dalle lapidi di un cimitero di campagna: «Sebbene i nostri corpi giacciano abbandonati, qui, nelle tenebre, / le nostre anime si levano / per accendere la scintilla e portare il fuoco, / per stare uniti spalla a spalla, cuore a cuore».
Bruce Springsteen sente la vita a partire dal mistero cristiano centrale, a partire cioè dalla certezza che per la vita, «a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena morire», come scriveva un'autrice da lui amata come Flannery O'Connor, secondo la quale, «se si crede nella divinità di Cristo, bisogna avere caro il mondo pur dovendo lottare per sopportarlo». È una fede – come canta in Land of Hope and Dreams – che verrà ricompensata: i sogni non verranno più frustrati e suoneranno le campane della libertà.
Ma forse è solo rock ‘n' roll…

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