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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

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INTERVISTATORE
Immagino la fatica dal punto di vista atletico, mettersi in condizioni di...
SACCHI
No no, atletico no: noi non spendevamo niente rispetto agli altri, noi eravamo sempre in "aerobia", perché quando sei corto gli scatti non sono mai più lunghi di dieci, quindici metri, è quando sei lungo che gli scatti vanno sui venti, trenta, quaranta... Tanto che i miei giocatori – il povero Brera disse «li massacra tutti» –, Maldini ha finito di giocare a quarantun anni, Costacurta trentanove, Filippo Galli anche lui sui quarant'anni, Baresi trentasette, Tassotti trentasette. Eccetto Van Basten, poverino, perché ha avuto problemi al ginocchio, hanno avuto tutti una carriera lunga, molto lunga, perché, fra parentesi, la fatica era divisa per undici, mentre nelle squadre italiane giocavano in realtà tre quattro giocatori perché il portiere non si muoveva dalla porta e non giocava, dunque il difensore centrale non si muoveva dall'uomo perché doveva marcare: c'era un calcio specialistico. Io ho sempre pensato a un calcio globale, ho sempre pensato di avere una squadra non di avere un singolo, e quindi allenavo la squadra per migliorare il singolo, non partivo dal singolo per arrivare alla squadra, non so se mi sto spiegando...

INTERVISTATORE
(Si potrebbe lasciar parlare Arrigo Sacchi di calcio senza neanche leggere il suo curriculum. La passione pedagogica toglie ogni distanza e sacralità alla telefonata: non sto parlando con chi ha vinto le prime due coppe dei campioni e il primo scudetto del Milan berlusconiano tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, sto parlando con un ex calciatore dilettante appassionato di calcio, figlio di imprenditore, che cominciando ad allenare a ventisette anni guadagnava meno che dal padre. Uno che ha «sempre amato il calcio moltissimo, una passione enorme, tanto che quando andavo alle elementari facevo la radiocronaca virtuale. Giocavo come tutti i bambini. Una cosa che mi sarebbe piaciuta fare, da piccolino, era il regista cinematografico o il direttore d'orchestra o l'allenatore, quindi sono stato fortunato perché sono riuscito a fare una di queste cose. Mi sentivo proprio la vocazione di insegnare ed ero attratto da quelle squadre che giocavano un calcio di dominio, un calcio da protagoniste...». Non una leggenda, uno che dice: «Smisi di giocare a calcio, e nessuno pianse». Smise per un'infiammazione, andò ad allenare la squadra del paese, Fusignano, in Romagna: il direttore sportivo faceva il bibliotecario. Sto ascoltando uno che perdeva tutte le partite del precampionato con il Bellaria di Igea Marina in quarta serie «perché se lei vuol costruire una baracca non deve fare delle fondamenta, ma se vuole costruire un grattacielo deve fare le fondamenta e finché fa delle fondamenta va sottoterra e non sopra». Uno che in quarta serie allenava giocatori di dieci anni più anziani. Uno che avendo allenato la primavera del Parma, poi il Rimini, le giovanili della Fiorentina, quindi il Rimini, arrivato alla prima squadra del Parma la porta in vantaggio a San Siro in Coppa Italia contro il Milan, e invece di inserire un difensore per un attaccante e coprirsi, in vantaggio di uno a zero mette un altro attaccante. Così, a Milano lo notano, e arriva un'offerta).

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