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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

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Mi affrettai a darle ragione, come feci vigliaccamente per tutto il colloquio, nonostante trovassi inutile già allora quella guerra tra cattedre e redazioni, come se non fosse possibile trovare un ragionevole compromesso tra la prosa superciliosa di certi parrucconi e la pagina banale dei divulgatori. Terminata la filippica (tale e quale, in senso opposto, a quella di tanti professori contro di lei: «Purtroppo non ha mai capito il trascendentalismo»), sgranò un rosario di ritratti che avevo già letto sui giornali. « Henry Miller arrossiva per una barzelletta, Bukowski mi ha regalato una rosa, Gregory Corso era uno squatter…». Il telefono non smetteva di squillare: questuanti che la vessavano per scroccare un blurb o una recensione, e a tutti rispondeva sì, forse, nì, per poi alzare gli occhi al cielo e invidiare il vecchio Ernie, che beato lui s'era già tirato un colpo in testa. « Hemingway e Pavese… – intonò con voce roca – sono stati gli uomini più disperati che io abbia conosciuto». Mentre le si velava lo sguardo, non riuscivo a capire se avessi davanti un'attrice consumata o una donna infelice.

Forse era un mistero anche per lei. «Io non ho fatto niente. Sono una fallita». Cercai goffamente di rincuorarla. Per fortuna quella condiscendenza la irritò e si riscosse. «Perché non telefoniamo a qualcuno?».
«A chi?», fece lo sveglione.
«A un editore, no?». Le presi le mani e la aiutai ad alzarsi. Ci spostammo alla scrivania, dove lei scartabellò un'agenda. «Chiamiamo il direttore editoriale di…?». All'altro capo del filo le dissero che il capoccia era in montagna. Indefessa, riuscì a estorcere il numero. Stava per digitarlo, quando si girò: «E se sta scopando?». Eruppe in una splendida risata da megera e fece il numero. Gli strappò un colloquio, da cui sarebbe cominciata la mia fulminante carriera di correttore di bozze. Era arrivata l'ora del congedo. «Ho da lavorare».

Accennò con il mento a un cumulo di libri, come un meccanico in officina che indica le auto in panne. Avevo il mio trito aneddoto sulla decana delle lettere americane e pensavo che la vicenda sarebbe finita lì. Mi sbagliavo.
Negli anni successivi il suo percorso deragliò verso un ecumenismo orientaleggiante, frutto – credo – un po' della solitudine e un po' dell'adulazione altrui, per cui tutto era uguale a tutto: Lou Reed valeva Dos Passos, De André se la giocava con Carver. Aveva sempre detestato i tromboni e forse quei cantanti le regalarono un affetto che addolcì gli ultimi anni. Vero, ormai saltavo i suoi articoli, dal ricorrente incipit: «Ah, questo (nome del questuante recensito)!"», ma evitavo anche quelli dei detrattori, lestissimi a infierire sugli svarioni di un personaggio che non aveva più nulla da perdere, salvo la credibilità. Intanto la mia risibile ascesa editoriale mi portò a tradurre libri e a pubblicare un romanzo. Quando il mio scalcagnato editore ammise di non avere uno straccio di spalla per la presentazione di Milano, ebbi l'eureka e proposi Fernanda Pivano.

«Ottimo! La conosci?». «Diciamo che ho il suo numero».
Invece aveva cambiato casa e la morosa era entrata nel delicato pantheon delle ex. Quando riuscii finalmente a stanare la Pivano, per rinfrescarle la memoria fui costretto a nominare il mediatore di un tempo, un tizio mai visto in vita mia.
«Adorabile! Me lo saluti?». «Eccome! Nel frattempo…», borbottai. «Sto pubblicando un romanzo e sarei felice di farle leggere qualche pagina».
L'udienza fu concessa, ma qualcosa era cambiato. Mi salutò a mani giunte e mi guidò in quella nuova casa. I libri erano finiti in una biblioteca della Fondazione Benetton e a lei era rimasto un mucchio di vuoto. Ci sedemmo a tavola e le allungai il dattiloscritto. Lei inforcò gli occhiali e cominciò a sfogliarlo. Quando si imbatté in un paio di volgarità, sentenziò alla Warhol: «Bravo, mettici le parolacce».
«Mi chiedevo…», feci mellifluo. «Non le andrebbe di presentarlo?». Altruista fino all'autolesionismo, acconsentì. Uscii da quella casa con la sensazione di essere diventato una delle tante piattole. E poi il libro non l'avrebbe mai letto, vuoi per stanchezza o per saturazione. Si sarebbe arrangiata con il mestiere. Meglio rinunciare. La richiamai qualche giorno dopo per dirle che la presentazione era stata rimandata. «Accenderò un cero per lei…», mi liquidò.

Qualche anno dopo, in pieno agosto, mi raggiunse l'sms di una vecchia amica e trovandomi in un Paese lontano per fortuna mi persi tutti i coccodrilli . «Fra dieci anni sarai sulla cresta dell'onda», aveva profetizzato in quel primo incontro lontano. Era stato l'ennesimo generoso abbaglio.

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