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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 15:18.

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Se è così e se ancora oggi è questo che caratterizza l'Italia, la sua cultura e quindi il suo patrimonio culturale, il significato dell'impegno assegnato alla Repubblica dall'art. 9 della Costituzione va davvero ben al di là di quello che in esso fu colto nei primi anni della Repubblica. Nel primo, citatissimo Commentario alla Costituzione, a cura di Baschieri, D'Espinosa, Giannattasio, uscito nel 1949, dell'art. 9, e in particolare del suo secondo comma sulla tutela del patrimonio artistico e storico, si diceva che questa era una "disposizione di dettaglio" e quindi una "stonatura" fra i principi fondamentali.

E invece no, non c'era alcun errore nell'aver collocato una disposizione del genere fra i principi fondamentali. C'era la lucida presa d'atto di una storia e di un futuro non separabili, di un patrimonio artistico e storico che non è soltanto archeologia, ma è alimento per lo sviluppo della cultura e della ricerca e ne deve essere esso stesso continuamente alimentato.
Sono tante le implicazioni di una visione come questa e oggi siamo noi, in realtà, a non dimostrarcene consapevoli quanto dovremmo. La prima è che nello scrutare le strade per il nostro futuro, dobbiamo certo guardare anche fuori di noi, ma è sbagliato che cerchiamo di continuo modelli stranieri da imitare. Badiamo piuttosto ad innestare ciò che cogliamo altrove nella nostra, originale capacità di rielaborazione, che è quella a cui dobbiamo, storicamente, la qualità e la bellezza delle nostre creazioni. Abbiamo insomma l'orgoglio di essere ciò che siamo stati nei nostri momenti migliori, l'orgoglio non di imitare gli altri, ma di fare ciò che agli altri possiamo insegnare. Un esempio che già altre volte mi è capitato di fare? Per valorizzare l'area di Pompei, alla quale stanno andando finalmente attenzione e risorse, non pensiamo ad una grande Mc Donald in cui i visitatori si possano rifocillare. Pensiamo, noi che abbiamo i migliori e più ricercati restauratori del mondo, a collocarci la prima scuola di restauri del mondo.

La seconda implicazione investe il raggio che dobbiamo saper assegnare alla cultura e alla ricerca che intendiamo promuovere. Non è nella nostra storia lunga, è dovuta a un collo di bottiglia formatosi in secoli recenti la marginalizzazione delle culture scientifiche a beneficio di quelle umanistiche. Ma l'Italia non è solo Dante. Petrarca e Michelangelo, è anche Galileo, è Evangelista Torricelli, è Alessandro Volta, è Antonio Meucci, è Enrico Fermi, è Leonardo, formidabile sintesi della scienza e dell'arte. Né la nostra cultura scientifica è solo in queste grandi figure, giacché anch'essa è stata interessata dalla circolarità di cui parlavo poc'anzi e anch'essa ha conseguentemente contribuito al successo nel mondo di tanti prodotti italiani.

La terza implicazione, sul fondamento delle due precedenti, è che il motore della nostra crescita può ben essere, in tutte le sue accezioni, la nostra cultura, ed è questo che fa acquistare all'art.9, in tutte le sue parti, la centralità alla quale per troppo tempo non abbiamo pensato.
C'è intanto la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico che abbiamo ereditato. Lascio ad altri, qui come altrove, gli approfondimenti che servono. Mi limito a constatare che far degradare i beni storico-artistici non è solo farli cadere nell'abbandono, ma anche esporli a fruizioni di massa che li possono devastare. E non penso soltanto all'eccesso di calpestio o di respirazione e sudore in talune cappelle. Penso ai mille e mille pullman turistici che hanno accesso ad ogni parte di Roma, ne sconnettono i sanpietrini, ne sconvolgono il traffico e ne imbruttiscono la vista per gli stessi visitatori che vengono a conoscerla. Questo davvero non accade in nessuna città d'arte d'Europa, che abbia rispetto di sé. E non accadde a Roma neppure per il Giubileo, quando i pellegrini poterono usare anche le loro gambe per vedere una città, che fu per ciò stesso più bella.

C'è poi lo spazio che dobbiamo saper dare alla ricerca nelle scienze e nelle tecnologie dalle quali più dipende il futuro delle società avanzate. Qui è davvero sconvolgente la distanza che separa le affermazioni di principio dalle decisioni che si adottano, tanto a proposito della priorità da riconoscere alla ricerca, quanto a proposito dei giovani che per primi dovrebbero beneficiarne. Colpire gli sprechi è sacrosanto, ma bloccare il turn over con gli stessi criteri e le stesse strettoie in qualsivoglia settore, con l'effetto di disperdere i team di ricercatori che si erano formati è davvero controproducente. Così come lo è tagliare la spesa di beni e servizi in rapporto alla quantità del personale che se ne avvale, senza distinguere fra le normali suppellettili di ufficio e le apparecchiature, spesso costose, con cui piccoli nuclei di scienziati conducono le loro preziose ricerche.

Si parla di "terza rivoluzione industriale" –lo ha fatto di recente l'Economist- prefigurando una ondata di nuovi prodotti e servizi, dovuta alla innovazione radicale della manifattura e dei suoi fondamentali tecnologici ed economici. Mentre gli studi recenti, sui quali largamente si fonda il Manifesto meritoriamente promosso da Il Sole 24 Ore, ci dicono che può essere di tutto rispetto il contributo alla crescita economica della cultura, dell'industria culturale come della valorizzazione e dell'accrescimento del patrimonio storico-artistico.

Sono tutti fronti sui quali l'Italia ha formidabili carte da giocare. E potrà farlo se sapremo noi liberarci dai vincoli e dalle strettoie che ce lo impediscono. Sono vincoli e strettoie di indole anzitutto finanziaria, ma c'è anche troppo spesso la ristrettezza della nostra visione, la nostra inadeguatezza nel gestire le eredità che abbiamo e le risorse di cui disponiamo tuttora.

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