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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 11:30.

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A livello macro gli effetti di questi disequilibri sono già in atto. «Il cibo è il nuovo petrolio», sostiene Lester R. Brown, fondatore dell'Earth Policy Institute e autore di un libro pubblicato a settembre negli Stati Uniti dal titolo esplicativo: Full Planet, Empty Plates: The New Geopolitics of Food Scarcity. Se ci ricordiamo che cosa accadde in Europa negli anni Settanta durante la crisi petrolifera, possiamo farci un'idea di che cosa accadrebbe se i grandi granai del mondo – gli Stati Uniti, la Russia – decidessero di applicare restrizioni all'esportazione per soddisfare la domanda interna in anni, come il 2012, di raccolti disastrati.

La scarsità di cibo e di acqua è destinata a creare instabilità politiche, ma a differenza di quanto è avvenuto con il petrolio, nemmeno l'apocalittico Brown riesce a immaginare guerre armate per il frumento, «ma guerre commerciali sì, ci sono già».

Arraffare terre
Prendete il maiale. Mao Tse Tung andava matto per il brasato, appiccicosissimo e rosso, fatto soltanto con una razza tipica del Ningxiang, dichiarata «tesoro agricolo» per assecondare il palato del Timoniere e non lasciare al popolo una carne tanto prelibata.

La metà dei maiali del mondo – 476 milioni di esemplari, per quanto le statistiche da quelle parti siano spesso questionabili – vive in Cina e il governo di Pechino, dopo lo choc dei prezzi del cibo del 2007, ha creato una riserva «strategica» di carne di maiale, cioè tratta il maiale come se fosse un lingotto d'oro o un barile di petrolio, per l'appunto. Nonostante i maiali in Cina non vivano più sotto al portico dietro a casa come animali domestici, la produzione interna di carne di suino pur industrializzata non è sufficiente a soddisfare la domanda e Pechino continua a importarla dall'estero, in particolare dagli Stati Uniti.

Soprattuto la Cina non produce abbastanza grano, frumento e germogli di soia per alimentare tutti i maiali che ha. Così importa ciò di cui ha bisogno, ma le importazioni sono soggette a variabili che non possono essere controllate nemmeno dal potente comitato centrale di Pechino. Ecco perché la Cina s'è messa a fare la voce grossa nel «land grabbing», arraffa terre in Paesi stranieri e li fa suoi, come se fossero immensi territori oltremare che forniscono alla terra madre quei prodotti che da sola non è in grado di produrre. Una nuova forma di colonialismo.

Secondo i dati di Oxfam, negli ultimi dieci anni sono stati comprati o presi in leasing (con contratti che durano 99 anni) in Africa e in Asia 227 milioni di ettari di terra, otto volte le dimensioni del Regno Unito. Lo sfruttamento dei terreni e delle persone che ci abitano è talmente fuori controllo che l'Onu, che non brilla certo per la sua prontezza, nell'aprile scorso ha stilato le linee guida per il «land grabbing» – ovviamente non vincolanti. Il sigillo della speculazione sul business dell'agroalimentare è stato messo da George Soros, che nel 2009 ha dichiarato: «I terreni coltivabili diventeranno uno dei migliori investimenti del nostro tempo. Alla fine i prezzi del cibo diventeranno tanto alti che il mercato sarà inondato di risorse attraverso lo sviluppo di nuove terre e la tecnologia, e il "bull market" finirà. Ma c'è ancora tempo».

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