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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 11:30.

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In The Land Grabbers: The New Fight over Who Owns the Earth, l'ambientalista britannico Fred Pearce ritrae i protagonisti di questo grande affare neocolonialista e il mondo che ne risulta è, in miniatura, quello che abbiamo già visto all'opera nelle crisi energetiche e in quelle finanziarie. Ci sono gli investitori-filantropi-speculatori, dal già citato Soros a Richard Branson della Virgin, ci sono gli sceicchi arabi, gli oligarchi russi, i generali birmani, Goldman Sachs che si sta comprando l'industria del pollame cinese e Lord Rothschild che sta facendo sua la terra brasiliana che già negli anni Settanta fu adocchiata dai giapponesi che, stanchi dei capricci americani sulla produzione di soia, resero il Brasile una potenza agroalimentare.

La terra «arraffata» è per lo più in Asia e Africa: il 63 per cento della terra arabile della Cambogia, il 30 per cento della Liberia, il 20 per cento della Sierra Leone, e grandi progetti sono in corso in Etiopia, Indonesia, Laos e Filippine. Secondo l'indice globale della fame stilato per il 2012 dal Cesvi, la maggior parte delle «acquisizioni» avviene in Paesi con alti livelli di denutrizione e il 55 per cento dei suoli acquisiti è destinato a colture per biocarburanti. Le superpotenze del «land grabbing» sono l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e naturalmente la Cina (il Regno Unito detiene un primato: è il più grande investitore in biocarburanti nell'Africa sub-Sahariana). C'è un dato inquietante che tiene insieme la speculazione, la disperazione, la fame e il male meno estirpabile del nostro tempo: il terrorismo.

Un esempio: la compagnia saudita Foras International Investment intende produrre entro il 2016 sette milioni di tonnellate di riso in Senegal e in Mali per importarlo nell'arida penisola arabica, e così ha affittato 700mila ettari di terra. Non serve ricordare che il Mali è ormai al di là della definizione di «rogue state»: al Qaida governa metà del Paese, la sharia è stata applicata in molte zone del Nord, per tutti gli esperti il Mali è il nuovo santuario dei fondamentalisti, come lo fu l'Afghanistan dei talebani negli anni Novanta. E parte della sua terra è presa in affitto dai sauditi.

La fine delle istituzioni internazionali
La scarsità di cibo, di acqua e di terra ha contribuito a un altro fenomeno interessante, specchio di quanto avviene in altri contesti.

Nella conversazione con IL, Lester Brown l'ha definito «un nuovo egoismo degli Stati»: di fronte alle ristrettezze, sono saltate tutte le collaborazioni, le convenzioni interstatali, le diverse forme di solidarietà tra nazioni. Ognuno fa per sé, ognuno va a caccia delle risorse che gli servono, e l'unica speranza che coltiva è che i grandi esportatori dell'agroalimentare non si mettano a imporre restrizioni. Se il più grande esportatore di riso del mondo, il Vietnam, decidesse di trasformarsi in un impero potrebbe aver bisogno soltanto di una spietata politica commerciale con i Paesi vicini. Il multilateralismo che ha ispirato la politica globale del secondo dopoguerra – di cui la Fao, la Food and Agriculture Organization of the United Nations, è l'incarnazione nel settore agroalimentare – ha lasciato il posto all'egoismo. Il meccanismo per noi europei è molto chiaro: di fronte alle difficoltà, stare insieme non conviene.

Lo sa bene l'Unione europea alle prese con gli irresponsabili dell'euro e lo sapevano bene gli americani quando, sotto attacco del terrorismo internazionale, hanno deciso di difendere il proprio interesse nazionale soltanto con chi ci stava, i famosi volenterosi. Nei conflitti commerciali non c'è bisogno di dichiarazioni ufficiali o di annunci o di vertici notturni a due, tre, quattro velocità: un Paese modifica internamente le quote dell'import-export, la domanda e l'offerta globale non si incontrano più, i prezzi salgono e i Paesi che patiscono reagiscono. A volte bene, a volte innescando ripicche.

Con un paradosso che caratterizza la geopolitica del cibo: il Fondo monetario e la Banca mondiale sono spesso compiacenti con i Paesi commercialmente più forti e aggressivi, in quanto sono titolari di investimenti, fanno girare soldi in Paesi molto indebitati e sotto pressione da parte delle istituzioni internazionali. E poco importa se, come spesso accade nei Paesi con governi autoritari, nulla di quanto generato viene distribuito alla popolazione locale. Come dicono gli agricoltori del Mozambico durante le loro proteste: siamo sopravvissuti al colonialismo, siamo sopravvissuti alla guerra civile, ma la guerra per il frumento ci farà tutti fuori.

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