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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2013 alle ore 16:39.
Un limite di questo approccio, di cui l'utilitarismo è un esempio, sta nel fatto che uno stesso insieme di forme di benessere può accompagnarsi a dispositivi sociali, opportunità, libertà e conseguenze molto diverse di cui la valutazione di utilità, o di felicità, non tiene direttamente conto. Eppure un insieme con pari valori di utilità può accompagnarsi o meno a gravi violazioni dei diritti individuali. Qualunque cosa accada però, negli esercizi di valutazione l'approccio utilitaristico richiede di ignorare le disuguaglianze e le violazioni dei diritti e delle libertà personali, e di giudicare le alternative soltanto dai totali di felicità generati da ciascuna. Pare strano questo tenace rifiuto di attribuire un'importanza intrinseca a qualunque cosa esuli dal benessere o dalla felicità nel valutare stati o politiche alternative.
Il limite della prospettiva utilitaristica è aggravato inoltre dall'interpretazione del benessere individuale in base alla sola felicità o al "piacere meno il dolore" (per dirla con Jeremy Bentham), una visione angusta e restrittiva in particolare degli aspetti interpersonali delle privazioni. Per esempio paragonare la felicità – o la forza dei desideri – può essere una guida parecchio ingannevole ai confronti interpersonali tra la nostra vita e quella altrui, poiché aspettative e sopportazione, sofferenze e piaceri tendono tutti a venir adattati alle nostre circostanze, in particolare per renderci tollerabile la vita in mezzo alle avversità.
Alla metrica utilitaristica succede di essere profondamente ingiusta verso le persone che subiscono privazioni persistenti, i perdenti delle società stratificate, le minoranze oppresse da società intolleranti, i lavoratori precari che vivono in un mondo di incertezza e quelli sfruttati da certe industrie, le casalinghe sottomesse in culture profondamente sessiste. Ai più miseri può mancare il coraggio di desiderare un cambiamento radicale e tendono spesso ad adattare le proprie aspettative e aspirazioni a quanto sembra loro fattibile. Si allenano a trarre piacere da ogni grazia ricevuta.
Gli adattamenti hanno però l'effetto incidentale di falsare la scala delle utilità. Nella metrica del piacere, o dell'appagamento dei desideri, gli svantaggi di chi si accontenta delle proprie sventure possono apparire minori di come emergerebbero da un'analisi più oggettiva delle privazioni e dell'assenza di libertà. Riconciliarsi con i propri svantaggi o accontentarsene è ben diverso dal non avere svantaggi. Perciò, come ho scritto in Lo sviluppo è la libertà e L'idea di giustizia, gli indicatori della performance sociale basati sulla felicità sono così problematici.
Però trascurare simili valutazioni delle società e della vita sociale crea a sua volta un problema perché, fuori dalla filosofia utilitaristica, usiamo spesso il termine "felicità" in sensi più ampi. L'espressione "un paese felice" riflette una forte approvazione e lungo tutta la nostra storia la felicità è stata evocata come la cosa più importante della vita. Ne parla Socrate e, con il suo sigillo, Aristotele ha sancito il perseguimento dell'eudemonia. C'è forse un conflitto con la mia precedente critica all'affidarsi alla felicità per giudicare dell'andamento di una società? Direi di no, perché l'ideale di felicità può essere interpretato in modi diversi. Qui è utile ricordare quella che Gramsci chiamava "filosofia spontanea" per capire la natura complessa di quello che intendiamo quando usiamo la parola "felicità" nella comunicazione quotidiana.
Le diamo un senso più generale della definizione utilitaristica "piacere meno dolore".
Se vi chiedo, per esempio, se volete pranzare con me e rispondete "ne sarei felice", non vi obietto che la domanda era un'altra e che volevo sapere se eravate d'accordo o meno per venire a pranzo. Sarebbe assurdo, perché nel dichiarare che ne sareste felici avete già comunicato il vostro assenso. Certo, si può dare una definizione tecnica di felicità, come gli utilitaristi e chiunque altro, ma se una persona risponde "ne sarei felice", non è detto che si riferisca a quella definizione e le sue parole vanno esaminate nel loro contesto, secondo le regole che ne governano l'uso nella normale conversazione. Molti filosofi riterrebbero una simile attenzione alle regole sull'uso del linguaggio in linea con il pensiero di Ludwig Wittgenstein nelle opere più tardive, come le Ricerche filosofiche. Sarebbe corretto, tutto sommato, ma come ho già avuto occasione di dire, le radici si trovano nella ricerca filosofica svolta con notevole potenza da Antonio Gramsci, che ne è stato il pioniere e ha influenzato Wittgenstein attraverso il grande economista Piero Sraffa, amico di entrambi (e, per una felice coincidenza, mio insegnante a Cambridge). L'interesse filosofico di Sraffa risaliva alla sua collaborazione con Gramsci all'Ordine nuovo, il famoso settimanale fondato da Gramsci e chiuso da Mussolini. Ci accorgiamo delle regole che governano la nostra comunicazione, sosteneva Gramsci, attraverso il linguaggio che impariamo ad usare e questo rientra in quella che chiamava "filosofia spontanea".
Distinguerei quindi il senso benthamiano ristretto di felicità reso popolare dalla filosofia utilitaristica dal senso che ha nella filosofia spontanea. C'è un rapporto, ovviamente tra provare piacere nel fare qualcosa (tutto ben considerato) e la felicità nell'accezione benthamiana. L'infelicità in senso stretto può essere il risultato della frustrazione dovuta al non poter fare quello che desideriamo, anche se la ragione del nostro desiderio ha poco o nulla a che fare con il perseguimento della felicità definita come piacere. Volete aiutare, mettiamo, una persona poverissima perché pensate che sia la cosa giusta. Non è la ricerca della vostra felicità a motivarvi e neppure l'idea che fare la costa giusta tenderà a rendervi più felici. C'è una differenza tra aiutare qualcuno perché è la cosa giusta e aiutarla per procurarsi, anche indirettamente, una gioia personale. Nel primo caso, la gioia è un aspetto secondario mentre l'etica non lo è: la felicità in senso benthamiano può essere implicata indirettamente, ma non perché essa sia il vostro unico scopo, e nemmeno quello principale: procurare un aiuto a chi ne ha bisogno.
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