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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:29.

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Passati gli anni Ottanta, le cose sono cambiate, nessuno è più stato in grado di avvicinarsi al richiamo promozionale della giusta causa senza essere risucchiato. L'attivismo di Bono è diventato sempre più ingombrante, e ormai andare a un concerto degli U2 è quasi come partecipare a un congresso di anime pie. Da un certo momento in poi tenere separate etica e estetica della carità è stato impossibile.
Si può – diciamo evidentemente tutto al netto del concetto di "lodevole" – fare beneficenza oggi senza abbandonarsi al genere della beneficenza, cioè un distillato di abbracci, ballatone, fratellanza e lacrime gonfie di domani? Al momento, compresi i concerti benefici italiani per le vittime dei terremoti, sembra di no. Il fenomeno vale sicuramente molto più per un Paese cattolico come il nostro che per quelli di matrice protestante, ma è radicato profondamente nel cristianesimo. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me», dice il Vangelo di Matteo. Ancora: «Beati i misericordiosi, perché di essi Dio avrà misericordia». Per il fedele l'elemosina è effettivamente uno scudo che protegge dalla severità del giudizio divino, e non c'è un'ipocrisia moderna nel sentirsi sollevati quando si regalano dei soldi ai poveri.

Dice Sant'Ambrogio (Treviri 339 – Milano 397 d.C.): «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». Mostrare a tutti che si dà è quindi un modo per controbilanciare la visibilità smaccata del proprio benessere. Sant'Agostino (Tagaste 354 – Ippona 430 d.C.) specifica che la beneficenza va fatta indistintamente, senza chiedere conto, anche a chi non se la merita, non potendo giudicare da soli le gesta altrui: «Il soccorso prestato ai bisognosi è un prestito fatto a Dio». Non c'è un'altra compravendita in cui alla cessione di denaro segua una così scarsa attenzione al prodotto che si riceve in cambio: ciò che preoccupa nel meccanismo della beneficenza è più l'acquisto delle indulgenze che la soluzione di un problema. Il libro uscito da qualche settimana L'industria della carità di Valentina Furlanetto (Chiare Lettere) racconta il lato torbido della beneficenza, sviluppatosi al riparo di questo senso comune. Perché chiedere conto ci sembra inelegante: ci interessa solo che i destinatari siano messi male e che si veda che li aiutiamo. Alcune attività commerciali promettono beneficenze in percentuale al profitto: una pratica che fa efficacemente leva sui meccanismi di lavaggio della coscienza.

Dopo l'uragano Sandy, raccontava il New York Times a novembre, una moltitudine di negozi, imprese e organizzazioni ha promesso di donare il 15% dei ricavi allo sforzo per la ricostruzione. L'idea di beneficenza diluita nei consumi è evidentemente la quadratura del cerchio, ma molti si sono chiesti se non sarebbe stato meglio fare donazioni tradizionali, invece di questi meccanismi autolubrificanti. Anche il fatto che i bisognosi fossero bianchi della classe media pare abbia influito: ci sono categorie umane che sono esteticamente meno bisognose. Tre settimane dopo Sandy erano stati raccolti 219 milioni di dollari, mentre nello stesso periodo dopo Katrina nel 2005 si parlava di 1,3 miliardi, e di 752 milioni dopo il terremoto di Haiti del 2010. Recentemente la Missione Bontà dei detersivi Dash (Procter & Gamble) prometteva di aiutare l'Africa con lo slogan "1 confezione di Dash = 1 vaccino", dove l'immediata semplicità dell'equazione si avvicinava a quel grado zero dell'impegno politico di chi mette dei "like" su Facebook per segnalare la propria adesione a una, dieci, centomila cause.

Qualche mese fa nel Regno Unito si è scoperto che proprio dietro al muro di pudore che circonda la beneficenza era successo qualcosa di inconfessabile per il Paese intero. La storia riguarda Jimmy Savile: "disc jockey" della primissima ora, classe 1926, conduttore di programmi radiofonici e televisivi di successo assoluto, tra cui il settimanale musicale Top of the Pops. Pochi mesi dopo la morte di questo santino vivente di radio e tv britanniche (come fosse per noi Mike Bongiorno e Raffaella Carrà in una persona sola) testimonianze sempre più numerose hanno fatto emergere una storia segreta e sistematica di violenze sessuali ai danni di femmine e maschi minorenni, in alcuni casi anche prepuberi. Protagonista della beneficenza nazionale, Ufficiale dell'Ordine Cavalleresco dell'Impero Britannico, Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno, Jimmy Savile era un fervente cattolico, un amico dei potenti, una celebrità della gente. Eccolo in una foto mentre abbraccia Giovanni Paolo II; eccolo con Diana, fatto della stessa pasta popolare; eccolo che posa con una trombetta da stadio accanto al primo ministro Tony Blair nel 1988. Perennemente in tuta, armato di sigaro cubano, denti storti e automobili lussuose, Savile ha usato violenza anche contro ragazze difficili ospitate negli istituti che finanziava con le sue campagne benefiche: la carità non era solo un mantello che usava per nascondersi, supereroe dello stupro, ma funzionava anche per reperire le prede.

Nei camper che lo seguivano durante le sue corse benefiche per il Paese, nei camerini dei programmi dedicati al pop, in quelli rivolti ai piccoli come Jim'll Fix It (Ci pensa Jim), Savile dava un senso drammaticamente agile e rapace al suo abbigliamento sportivo. La Bbc, di cui Savile è stato un'icona per decenni, ha fatto talmente fatica a espettorare la memoria del suo dj strampalato dal cuore d'oro, che ha lasciato sul campo tanta credibilità e un direttore generale.

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