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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2013 alle ore 08:34.

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Ma forse la cosa più interessante è l'uso bizzarro che qui si fa della parola scritta: si scrive come se si stesse filmando, o facendo una radiocronaca. Eppure le parole scritte non sono una pellicola da impressionare, e non sono la voce umana. Usarli in questo senso è possibile, ma non è mai stato fatto. Possono sopportare il peso della diretta? Chissà. Pensare che la parola sia una copia fotografica della cosa sottintende un realismo un po' ingenuo, che rischia di annientare l'intervento critico del giornalista: non la sua opinione, ma la sua capacità di scegliere e ordinare gli elementi rilevanti di un evento, ricostruendolo in forma di narrazione coerente. Il live-tweeting, invece, si porta dietro il pericolo di valorizzare solo ogni singolo frammento, sperando che basti seguirne la successione per ricomporre con attenzione l'accaduto. Ma voi quanti #eventi siete andati a rileggere dopo averli seguiti passo dopo passo?

Di fronte a queste cautele, la retorica dei guru 2.0 è già pronta a scatenarsi. Si dice che twittare un evento "aumenta" l'evento stesso: contribuisce a renderlo più orizzontale e democratico, aggiunge valore e così via. Si difende il piacere di partecipare al grande gioco dell'informazione dal basso, e così via. Tutto giusto: e senz'altro in certi casi, come le catastrofi naturali (vedi il terremoto in Emilia), il live-tweeting è uno strumento inestimabile. Ma per tutto il resto i prezzi da pagare restano intatti: la diminuzione dell'attenzione, la frammentazione del racconto, e l'idea che il commento live sia importante quanto il contenuto stesso. Forse sarebbe più interessante evitare qualunque estremismo da «mito della disconnessione assoluta» (un lusso che ben pochi possono permettersi), ma al contempo coltivare un modo meno ossessivo di copiare e incollare la realtà. Invece di inneggiare al carpe diem digitale, potremmo invece provare a rallentare un po'. Se la comunicazione ad ogni costo diventa il fine, allora la realtà stessa si perde: in fondo, non tutto è sempre degno di essere trasmesso all'istante.

Permettetemi allora di essere fuori moda fino in fondo e citare Elias Canetti, che in Confucio e i suoi dialoghi annota: «Ciò che conta non è il colpo della risposta immediata, ma l'affondare della parola alla ricerca della sua responsabilità». Una frase che dovremmo ricordarci sempre prima di twittare, e prima di pensare che la rapidità e la battuta pronta vincano sempre. Sui social network siamo immersi in uno spazio pubblico: e in uno spazio pubblico le parole meritano, appunto, di essere usate responsabilmente.

Non è solo una questione di attitudine: c'è anche un fattore tecnologico. Il motore di ricerca interno di Twitter è storicamente uno schifo. E in perfetta simmetria, anche il web sociale subisce un'autoerosione continua: uno studio della Old Dominion University ha mostrato come nel giro di due anni e mezzo quasi un terzo dei link condivisi su Twitter puntano a pagine inesistenti (blog chiusi, trasferimenti di indirizzo, eccetera).

Tutto congiura a rendere il presente il tempo fondamentale della rete, e il passato un tempo irrecuperabile o da infilare nell'ostensorio della nostalgia. Proprio per questo tutti i fenomeni di racconto istantaneo meritano di essere studiati con attenzione, senza lasciarli in mano né agli entusiasti né ai catastrofisti.

Tweet and shout, scrive qualcuno a intervalli regolari facendo il verso ai Beatles. Il problema è che il grido, su Twitter, dura lo spazio di un istante, prima di essere sepolto da un centinaio di nuove grida: il tempo reale si nutre di se stesso, vuole continuamente rimpiazzarsi, e la sensazione che ne risulta è quella di essere sempre in ritardo. Ma non siamo in ritardo. Stiamo solo assorbendo una grossa quantità di mutamenti nel modo in cui ci informiamo, discorriamo, passiamo il tempo e in definitiva viviamo.

Il 21 ottobre 2012 il giornalista Mathew Ingram fece il live-tweeting del funerale di un amico. Alcuni dei suoi follower si indignarono, altri lo trovarono un modo rispettoso di raccontare un evento al quale non potevano partecipare. Ingram ritiene di avere onorato il suo amico, e non c'è alcun dubbio sulla sua buona fede. Ma in generale, è stato un comportamento corretto? Oppure un abuso del mezzo? Ha contribuito ad alimentare la memoria del defunto? O ha esposto troppo una cerimonia privata, nel delicatissimo momento in cui avveniva? Chi ha ragione?

Ecco: è proprio quando è molto difficile capire chi ha ragione, che le cose si fanno davvero interessanti.

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