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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2013 alle ore 07:50.

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La vittoria registrata su quegli schermi li fece sentire i Padroni dell'Universo. La frase viene da un romanzo del 1987, Il falò delle vanità, il cui personaggio principale, Sherman McCoy, è un broker trentottenne di una banca d'investimento che fa una milione all'anno in bonus e vive nella parte più costosa di Park Avenue. Un giorno sente squillare il suo telefono nella sala delle contrattazioni della Borsa, risponde e prende un ordine d'acquisto per un numero tale di obbligazioni zero coupon che la sua commissione è di 50mila dollari. Ci sono voluti venti secondi, forse trenta, e – zac – ha cinquantamila dollari in più! Nell'area di Broca del cervello gli risuona subito la frase: «Sono un Padrone dell'Universo!» – dritto dalla collezione di pupazzetti della sua bambina di sei anni, i «Masters of the Universe», che avevano nomi come Ahor, Blutong e Thonk e sembravano dèi norreni che pompavano in palestra e bevevano creatina e frullati all'ormone della crescita.
Nel mondo reale, i giovani da sala delle grida di Wall Street lessero quel libro e si esaltarono con quel nome, Padroni dell'Universo. Lo pronunciarono ad alta voce con ironia – non erano mica scemi – e non fecero mai parola della botta di esaltazione che li attraversava quando lo dicevano: sono un Padrone dell'Universo…

Il crollo del mercato del novembre 1987 non diminuì quell'estasi se non per la durata di qualche singulto. Stessa cosa per il crollo delle "dotcom" del 2000-02. Ancora dopo il 2002, i Padroni dell'Universo possedevano un tale fascino incantatore che si stimava che il 40 per cento del migliore 10 per cento dei laureati di Harvard, Yale e Princeton cercasse lavoro a Wall Street.
Nel 2004, un noto broker della Deutsche Bank, John Coates, canadese, sconcertò i suoi amici e colleghi guerrieri degli schermi di battaglia mollando Wall Street e volando in Inghilterra a ricaricarsi alla sua alma mater, la Cambridge University, come grad student di primo anno in neuroscienze. «Neuroscienze?! In un Paese del Secondo Mondo come l'Inghilterra?».

La verità era che Coates non aveva smesso per un attimo di pensare a Wall Street. Era intrigato dall'idea che a un mucchio di giovinastri scapestrati, impulsivi, stonati e ululanti passassero per le mani ogni giorno miliardi di dollari. Si rivolgeva alle neuroscienze sperando di scoprire una possibile spiegazione all'assurdo fenomeno dei… Padroni dell'Universo.
Anche lui membro recente del branco, riuscì a persuadere diciassette broker della versione londinese di Wall Street, «la City», a lasciargli monitorare il loro quadro endocrino in tempo reale, nella sala delle grida della borsa, da prima del via a subito dopo la fine pomeridiana. La tecnologia era semplicissima. Tutti e diciassette dovevano sputare tre millimetri di saliva – vale a dire la metà dell'1 per cento di uno scatarro e il 2,1 per cento di uno sputazzo e tre volte uno sputino – in provette di polistirolo. Se non riuscivano a produrne, ricevevano gomme da masticare senza zucchero. A pochi minuti, mettiamo, da un'asta da dieci miliardi di sterline di obbligazioni governative a vent'anni, il corpo di un broker, le sue viscere, facevano una giravolta, ripartivano e si ricaricavano per poter prendere decisioni rapide – decisioni da miliardi di sterline.

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