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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2013 alle ore 08:36.
Una recente indagine promossa dall'Istituto G. Toniolo sul tema «Nuove generazioni comunicazione e futuro» rileva che in Italia gli under 30 (chi ha compiuto 18 anni dopo il 2000) sono la generazione dei «Millennials», la prima di nativi digitali. Presentano una familiarità con le nuove tecnologie di molto superiore alle generazioni precedenti; considerano il web il loro habitat naturale (l'85% dei ventenni è connesso) e la rete con loro sta diventando sempre più uno strumento di informazione, di interazione e di partecipazione. Pochi, tuttavia, tra i protagonisti del nostro tempo, sono dei giovani; è come se i «Millennials» stessero alla finestra di una grande piazza: conoscono tutto di tutti, ma nessuno chiede loro di scendere in campo e di mettersi in gioco. La massa dei giovani rischia una gioventù virtuale, senza concrete occasioni di dimostrare ciò che vale.
Fa eccezione l'arte, un mondo dove i giovani sono inseguiti dai talent scout, ambiti dai collezionisti, coccolati dai critici, lanciati nel sistema da mercanti e galleristi; costano da 3mila a 5mila euro a opera e con loro cresce l'Italia 2.0.
Anche Miart 2013 ha dunque posto l'accento sui giovani emergenti affidando all'italo inglese Andrew Bonacina, del Project Space di Birmingham, la curatela della sezione «Emergent»: 20 gallerie d'avanguardia, nate dopo il 2007 e provenienti da mezzo mondo (da New York a Oslo), proporranno opere di 33 autori contemporanei.
Tuttavia, al di là dei prezzi abbordabili, ci si chiede perché mai bisognerebbe guardarli: che cosa hanno da dire questi ragazzi alla società del terzo millennio? Il criterio con cui giudicare la bontà dei loro lavori ce lo suggerisce Robert Garris, direttore della Rockefeller Foundation di Bellagio (Como), che proprio nel corso del 2013 avvierà un programma di residenze anche per giovani artisti. «A loro chiediamo uno sguardo inedito sul mondo e che ci aiutino a capire che forma avrà il futuro, oppure cerchiamo nei loro progetti quella forza che spinge e sposta più in là i confini dell'arte, oltre gli schemi fino a oggi noti».
Alla ricerca di opere cariche di futuro iniziamo, allora, il tour delle gallerie partendo dalle italiane. Thomas Brambilla di Bergamo presenta l'opera di Oscar Giaconia; l'artista filosofo cita Maestro Eckhart: «Come si può fabbricare ciò di cui non si ha più memoria?», dipinge a olio come una volta, disegna, fotografa, assembla, denuncia i soprusi dei potenti e le urgenze del proprio colon e apre volentieri il suo studio a Villa di Serio. La galleria Fluxia di Milano, invece, propone il marsigliese Benjamin Valenza (1980), esordiente nel 2008 con una personale al Wartesaal di Zurigo. Autore di opere in pietra e legno dal sapore "poverista", ma anche di marmi bianchi lavorati a stacciato (cioè con rilievi minimi), ha un mercato europeo primario (è solo in galleria, non ancora in asta) con collezionisti in Gran Bretagna, Francia, Italia e Svizzera, dove attualmente vive e lavora. Il gallerista milanese Federico Vavassori dedica lo stand al lavoro del californiano Max Hooper Schneider (1982), interessante mix esotico e colorato di cultura newage, di metal music e di grafica neo gotica, alla ricerca del paradiso perduto.
La Galleria Frutta di Roma espone una triade di artisti: c'è il romano Gabriele De Santis (1983), dalla formazione internazionale e dal linguaggio concettuale, non privo di ironia nel dirci che non tutto ciò che appare esiste realmente; gli altri due sono britannici: John Henry Newton (1988) e Oliver Osborne (1985) che, in modo ludico e originale, vanno alla ricerca della loro identità fatta di frammenti. Anche nello stand di Laveronica di Modica il mondo sembra visto attraverso una Tac: la fotografa e video artista cipriota Marianna Christofides (1980), infatti, autrice di paesaggi come orizzonti della memoria, si esprime attraverso la serialità e la ripetizione e sembra suggerire che per sconfiggere il tempo che scorre è importante restare nel presente, con il coraggio di essere se stessi.
Nell'era globale è difficile chiedere alla giovane arte contemporanea una specificità nazionale, perché la geografia non è più fonte di dialetti, di suoni e di sapori inconfondibili, ma di linguaggi inediti; così la galleria londinese Southard Reid presenta il fotografo e performer Prem Sahib (1982), famiglia araba, cittadinanza britannica, parla in una lingua, prega in un'altra e cerca le sue radici nella civiltà islamica. Stessa sensibilità nello stand della galleria Circus di Berlino, dove le porcellane dipinte del turco-tedesco Özlem Altin (1977), le sue opere su carta astratte e informali, le litografie e i collage hanno il rigore dei teutonici e la complessità del Medio Oriente.
Nella sezione «Emergent» si trovano anche i lavori "non sense" usciti dalla Scandinavia come freddure artistiche. Da Christian Andersen di Copenhagen, ad esempio, è in mostra il danese Rolf Nowotny (1978), autore di grandi forme tridimensionali in acciaio, geometrie essenziali e quasi zen che l'artista propone come rebus faceti; mentre alla Galleria VI, VII di Oslo la trentenne norvegese Ida Ekblad, in forte scesa nel sistema dell'arte, presenta eleganti sculture fatte con il ferro recuperato fra i rottami e quadri caotici e colorati. Nelle sue opere i rimandi formali al gruppo Cobra sono tanti e riconoscibili, ma il messaggio è confuso; d'altronde tra gli esperti va di moda dire «meno ti capisco e più mi piaci». Un segno dei tempi? Giovani tanti, innovatori pochi.
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