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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2013 alle ore 10:56.

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Del resto, come non poteva fare rumore l'idea che proprio dalla stessa America che stava ritrovando il sorriso, arrivassero segnali così intensamente descrittivi? Dopo che tutto sembrava completato nell'edificazione d'una società funzionale, in cui vivere in perenne equilibrio sospeso tra anestesia sociale e beata partecipazione consumistica, spuntava il gemito del dissenso. Prima impercettibile, intermittente. Poi, come in un'epidemia, il balbettìo diventava urlo e il malessere deflagrava ma, finalmente, nel rappresentarsi, si estetizzava e liberava energie. Il tutto sotto lo sguardo di perplessità dei genitori, degli educatori e di quei maestri dell'universo che regolavano le circolazioni commerciali del pianeta. Ovvia incomunicabilità: una società che aveva inventato Mtv e i serial giovanilistici per soddisfare e placare i figli, si vedeva da loro ripagare con un atteggiamento distruttivo e al tempo stesso distaccato. Questa volta, niente scontro. Una semplice, agghiacciante ritirata. I ragazzini minacciavano di consumare meno, di dire sempre più spesso «no, grazie», di rinchiudersi in un terrorizzante esoterismo di gruppo, condito di segni incomprensibili. Ma non era difficile sovvertire gli andamenti, capirono presto proprio quegli stessi gestori dei mercati al primo momento rimasti spiazzati da quest'onda anomala. Bastava costruire una mandria di cavalli di Troia e spingerli dentro quella che s'ostinava a rappresentarsi come una terra desolata. Nel giro di un paio di stagioni, tutto ciò che si collocava al di fuori del circuito dei consumi – pubblico, produzione, creatività –, con prodigiosa capriola, si ritrovò ribaltato al centro del mercato: migliaia di copertine, inchieste, di oggetti culturali veri e presunti, una grancassa che rimbombava sempre più forte perché si diffondeva la sensazione d'aver fatto centro, di aver intercettato il trend spontaneo e d'averlo riplasmato a uso delle catene commerciali. Il no-brand, l'anti-griffe, perfino le scelte sublimi dell'ambientalismo, dell'animalismo, del vegetarianesimo e di una dolcezza del vivere umile e farfugliante, divennero "prodotti". Non ci volle molto prima che solo a sentir nominare la sigla GenX, un giovane interlocutore d'oltreoceano, s'alzasse dal tavolo mandandovi all'inferno. Una sbornia. Durata un paio d'anni e sfumata velocemente. Nel frattempo, Kurt era andato al creatore, Bret Ellis aveva scritto American Psycho, la versione italiana di Reality Bites di Ben Stiller era stata intitolata Giovani, carini e disoccupati: basta a sintetizzare il disastro. Chi c'era se n'era andato, magari era morto, aveva cambiato aria, faceva finta di non sapere cosa fosse stata quella volatile identità nella quale per un istante aveva intravisto un certo eroismo. I media provarono il trucco dei sequel e cominciarono a inventarsi "Generazioni" con qualsiasi prefisso (e si direbbe che ancora non l'abbiano fatta finita). Niente da fare, il gioco dura poco. E in fondo di quello s'era trattato: un gioco, ma anche un antidoto alla noia della prevalenza dei Baby boomers, un dar corda al marketing che metteva l'ammiccante etichetta Urban Outfitter su vecchie camicie a scacchi fatte in Indonesia, una scorciatoia per provare a fare gli artisti, nella speranza di rimandare il fatidico momento della maturazione. Scintille. Veloci, inoffensive. Eppure ancora visibili in lontananza. Strano, a pensarci bene.
Ah già: ecco le notizie all'origine di questa riflessione. C'è una teoria proposta da due sociologi del contemporaneo, William Strauss e Neil Howe (due ex reporter pop in gamba, adesso un po' invecchiati) secondo cui la storia americana va suddivisa in ricorrenti cicli generazionali, della durata di circa vent'anni ciascuno. Allo scadere del ventennio, inevitabilmente, subentrerebbe la fase della nostalgia, con annessi revival. Beh, se il fatto che Beavis e Butt-Head abbiano rifatto capolino su Mtv vale, allora Strauss e il socio hanno ragione. Certamente sono quasi vent'anni che Cobain s'è sparato in testa, e questo fa impressione, perché ormai ai figli bisogna spiegare chi fosse Kurt, non solo chi fossero i Beatles. Ma per quanto riguarda questa parabola di sgomento postadolescenziale che si diffuse come un raffreddore tra i ragazzini Usa, un riconoscimento va dato a chi le trovò un nome azzeccato, andando poi oltre, fino a farne il motivo di uno stravagante romanzo sotto forma di decamerone giovanilistico, nel quale iconizzare ricorrenze, luoghi comuni e idolatrie del movimento. Douglas Coupland è un 26enne canadese che si mantiene scrivendo per qualche rivista, in attesa che il suo pallino di designer trovi un pigmalione. Nel 1987 firma un pezzo per il Vancouver Magazine in cui focalizza le limitate ambizioni professionali dei coetanei, al contrario di quanto capita a lui (perché di tutto ciò Coupland sarà un cronista lucido, mai partecipativo. A lui la GenX resterà del tutto estranea e nemmeno troppo simpatica). Comunque l'articolo ha successo e un anno dopo Douglas si vede recapitare dalla newyorchese St. Martin's Press la commissione di un libro con un succoso anticipo di 22.500 dollari. L'incarico è di scrivere un "prontuario" alla sua generazione, sul modello del satirico Yuppie Handbook di Marissa Piesman e Marilee Hartley che a metà anni Ottanta era stato un hit. Coi soldi incassati e con la prospettiva di sfilarsi dalla scomoda posizione di freelance, Coupland si trasferisce a Palm Springs, in California, e qui comincia a stendere non un saggio, ma un romanzo, ambientato da quelle parti. Il risultato è disastroso: il libro viene rifiutato, a dispetto del titolo azzeccato che ha in copertina, Generation X: Tales for an Accelerated Culture. Poi l'editore ci ripensa e nel 1991 pubblica il romanzo, senza particolari reazioni d'interesse da parte di critica e pubblico. Generazione X è uno sleeper, un prodotto a effetto ritardato, ma quando i twentysomethings cominciano ad accorgersi del romanzetto che padroneggia con disinvoltura gerghi, costumi e dinamiche mentali che sentono proprie, il botto è memorabile. Un milione di copie vendute, un caso internazionale e per Coupland gli indesiderati gradi del portavoce generazionale. E il romanzo diventa miele per le orecchie di qualsiasi direttore di giornale del globo: quella lista di neologismi (ricordate i McJobs?), quelle minuziose descrizioni estese sotto forma di note a piè di pagina, quei tre protagonisti su cui ciascuno poteva appiccicare la foto dell'attor giovine preferito, crearono un memorabile caso di marketing culturale. Coupland faticò a scollarsi quell'etichetta fatale, e già nel 1994 s'affannava a dichiarare morta la Generazione X, sebbene nessuno gli dette credito e in un certo senso sotto quel macigno commerciale lui è sempre rimasto schiacciato. Al punto che dev'essersene fatto una ragione, se per il suo 50esimo compleanno ha trovato divertente scrivere una nuova introduzione al volume, mettendoci dolcezza, spirito e aplomb. Ha detto che era tutta un'illusione, forse uno scherzo, ma che al momento sembrò un affare maledettamente serio. In fondo erano i potabilissimi anni Novanta. E la storia di Andy, Claire e Dag, i tre dropout di Palm Springs che per dilettarsi a vicenda si raccontano storie strane (tutte ambientate nel 1974, l'anno del perfetto benessere americano), dovevano aver avuto senso per i ragazzi dell'epoca. Il fatto è che quel mondo si proietta in fondo a un vuoto cosmico, vivisezionato oggi. Era l'età del terrore dell'Aids e del revisionismo sessuale, del valore sovversivo (!) di Bill Clinton, dello strazio del sentirsi soli nella folla. Internet era un progetto per nerd, il web era disabitato, la rivoluzione della socializzazione doveva aspettare Mark Zuckerberg, che all'uscita del romanzo ha 7 anni. Un "come eravamo" prima che la storia s'avvitasse su questioni imprevedibili, legate alle Twin Towers, a un asse del male, al bailout, alla diffusione nel mondo di un modello democratico forse già superato. Altre priorità. Storia popolare.

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