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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2013 alle ore 14:31.

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A furia di concentrare tutti gli sguardi sul villaggio di cartapesta, ci siamo convinti di essere una comunità fragile e stanca, incapace di rinnovarsi e di credere nel futuro. Invece è vero esattamente il contrario. Nonostante la crisi durissima; nonostante l'ignavia della politica e la pigrizia del circo mediatico, c'è un'Italia che non si limita a resistere, resistere, resistere, ma che ha l'ambizione di dare l'assalto al cielo. C'è un sistema produttivo che attraversa una fase molto difficile, ma che ha nel suo Dna i geni per essere competitivo a livello globale, come dimostrano i dati straordinari dell'export. C'è un tessuto associativo e di volontariato tra i più vitali, in grado di supplire sempre più spesso alle carenze del pubblico. Ci sono, anche nelle amministrazioni, esperienze locali virtuose che rappresentano un modello di civiltà e di buongoverno. Bisogna spostare i riflettori dal villaggio Potëmkin della politica alla comunità trasversale degli innovatori. Non certo in omaggio alla retorica della società civile, ma per ripartire da quello che c'è già, anziché continuare a progettare in vitro le mille grandi riforme che continuano ad arenarsi come balene azzurre sulle spiagge della Tasmania. La politica non è più da anni il luogo nel quale si produce l'innovazione.

Al contrario, solo quando un'idea ha raggiunto lo stadio della banalità, essa fa il suo ingresso nell'arena pubblica. In parte è naturale –, e forse perfino benefico che sia così: le avanguardie rivoluzionarie si sono estinte con il secolo delle ideologie e non saremo certo noi a rimpiangerle. Detto ciò, un sistema politico è vitale se riesce ad accompagnare le trasformazioni della società. Senza pretendere di pianificarle a tavolino, ma con la capacità di rispondere alle sollecitazioni e di proporre una griglia di interpretazione dei mutamenti in corso. Negli Stati Uniti, Obama è riuscito a incarnare e a dar voce alle trasformazioni – demografiche, tecnologiche e culturali – che hanno cambiato il volto della società nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Non si tratta solo di carisma o di capacità narrativa. Dietro il successo di Obama ci sono le grandi correnti che stanno cambiando l'America: lo sviluppo dell'economia digitale e della società in Rete, la nuova composizione etnica della popolazione, il boom demografico degli ultimi venticinque anni e l'avvento della generazione dei Millennials.

In Italia le tendenze sono in parte diverse, ma la lezione è la stessa. Solo chi riesce a sintonizzarsi fino in fondo con le correnti che attraversano una società complessa può ambire a governarla. La sintonia però non basta. Ci vuole poi la quotidiana, pragmatica attitudine a conciliare la visione d'insieme con il legno storto della realtà. Quella capacità di avvitare i bulloni che faceva difetto, secondo Luciano Cafagna, ai riformisti italiani. Anche sotto questo profilo, dopo quattro anni di Governo, l'esperienza americana offre spunti interessanti. Si prenda il caso delle politiche industriali. Uno dei fattori decisivi della vittoria di Obama su Romney sei mesi fa è stato il diverso approccio al settore manifatturiero.

Di fronte al candidato repubblicano, ex consulente d'azienda che ripeteva da anni il mantra rassegnato della delocalizzazione e dell'inevitabile desertificazione industriale, Obama ha messo in campo il ritorno del made in Usa. Con cinquecentomila nuovi posti di lavoro creati negli ultimi tre anni, l'industria americana è tornata, per la prima volta da oltre un decennio, a creare occupazione anziché distruggerla. Un'inversione di tendenza storica che non rappresenta affatto un ritorno all'antico: il nuovo modello industriale ha caratteristiche molto diverse rispetto al passato e necessita di essere accompagnato da nuovi strumenti di policy. Ecco perché il direttore del National Economic Council, Gene Sperling, diffida del termine "politica industriale" e preferisce ragionare in termini di ecosistemi manifatturieri da incentivare. Ovvero della creazione di un ambiente nel quale la crescita possa fiorire perché non ostacolata, piuttosto che dell'utilizzo di leve meccaniche di intervento pubblico.

Per un contesto come quello italiano, a forte intensità manifatturiera ma sempre in bilico tra la rassegnazione dei declinisti e le vecchie formule dei nostalgici dei piani quinquennali, gli stimoli che provengono da oltreoceano sono preziosi. Quando Will Marshall, già ideologo della carica innovativa di Bill Clinton negli anni Novanta, traccia i contorni di una «new politics of production», spalanca una prospettiva interessante anche per il nostro Paese. Non si tratta di scimmiottare qualche slogan obamiano, ma di riunire tutti gli ingredienti disponibili per ricreare una visione motivante del futuro anche per noi. Non sarebbe certo la prima volta che una stagione di innovazione politica inizia negli Stati Uniti per poi propagarsi all'Europa.

Ci vuole sempre qualche anno perché la lezione sia metabolizzata anche dalle nostre parti, ma i risultati possono essere spettacolari. Nella seconda metà degli anni Novanta, l'onda lunga dell'elezione di Bill Clinton aprì un ciclo politico anche in Europa, con l'avvento dei leader della Terza Via, Blair e Schröder, che hanno posto le basi per la crescita economica dei loro Paesi negli anni successivi. Al di là di qualche sporadico tentativo di imitazione, quello è un treno che l'Italia ha sostanzialmente perso. E sarebbe vano e antistorico provare oggi a declinarne le ricette e le parole d'ordine in un contesto radicalmente diverso. Ora, però, un nuovo modello di innovazione politica comincia a profilarsi. I suoi contorni sono ancora incerti, ma le potenzialità appaiono considerevoli. Basti pensare all'uso di internet e dei social network come strumento sia di campagna che di governo: un tema cruciale che, da noi, rischia di essere preso in ostaggio da Grillo e Casaleggio. Per uscire dal villaggio Potëmkin il primo passo è riprendere ad alzare lo sguardo sulla realtà che ci circonda.

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