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Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2013 alle ore 16:19.

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La fine di Benito (e poi del Duce)

«Mi dispiace, non posso dirle nulla. Siamo incaricati dal governo di prelevare alcuni documenti».
Spalancano la porta. I loro passi rimbombano nel gran vuoto del salone monumentale. Arrivano alla grande scrivania, aprono tutti i cassetti, prendono i faldoni, controllano gli schedari. Alla fine portano via tutto. La scrivania resta per la prima volta completamente sgombra.
A Rastenburg, nel pomeriggio, Himmler conduce Hitler in uno dei bunker più piccoli del cerchio interno della Tana del Lupo: la sala da tè. Qui, allineati in perfetto stile militare, ci sono sei agenti speciali provenienti dalla Luftwaffe e dalla Wehrmacht.
«Che succede?».
«Mio Führer, questi sono i nostri migliori agenti speciali. Sono tutti candidati al difficile compito di andare a liberare Mussolini» dice il capo delle SS.
«Signori, da voi voglio sapere una sola cosa: chi di voi conosce l'Italia, e cosa pensa degli italiani».
Si fa avanti un militare: «Mio Führer, io li conosco come ottimi operai e tecnici specializzati, militari piuttosto mediocri».
«Mangiatori di spaghetti» dice un altro.
«Führer, che domanda!» strilla uno.
Hitler gli si avvicina. È un armadio, un metro e novanta, un quintale di peso. Sta ritto sull'attenti, visibilmente emozionato. Ha una cicatrice che gli parte dal centro del mento e gli attraversa tutto il lato sinistro del volto, come se gli avessero squarciato la guancia.
«Si presenti».
«Capitano Otto Skorzeny, gruppo incursori Friedenthal».
«Lei ha qualcosa da dire sugli italiani, capitano?».
«Una sola cosa. Io sono austriaco».
Gli occhi del dittatore si illuminano.
«Tutti fuori tranne Skorzeny».
La stanza si svuota.
«Mi ascolti bene, capitano. Io sto per affidarle un compito della massima importanza. Il mio amico Mussolini è stato tradito e arrestato dal re d'Italia. Io non posso e non voglio abbandonarlo nel momento di maggiore pericolo. La incarico di liberare il Duce, l'ultimo Cesare romano. L'operazione Eiche, che lei dovrà portare a termine, avrà un esito incalcolabile sulla prosecuzione delle operazioni militari».
Skorzeny è scavato nella roccia. Hitler lo guarda negli occhi.
«Questa missione richiede il più assoluto riserbo. Insieme a lei ne sono a conoscenza altre cinque persone. Il suo riferimento superiore è il generale Student, il quale farà poi rapporto a Himmler. Le è tutto chiaro?».
«Certamente, mio Führer».
Martedì 27 luglio 1943
Il passo del Brennero è una gola profondissima tra due montagne: c'è una piccola chiesa, un gruppo di case, una stazione. Sul fianco sinistro della montagna, per chi viene da sud, c'è una cascata molto suggestiva. Sopra la cascata, in alto sul crinale, c'è la Brenner Grenzkamm Straße, una stradina panoramica lungo la quale sono disseminati gli sbarramenti, i bunker e le fortificazioni del cosiddetto vallo alpino del Littorio, un sistema di blindatura del confine austriaco costruito negli ultimi cinque anni dai soldati italiani per impedire all'alleato germanico, che da qualche tempo confina direttamente con l'Italia, una calata in massa.
Il comandante del XXXV corpo d'armata italiano, il generale Gloria, alle 04.30 del mattino si trova a uscire proprio da uno di questi sbarramenti quando arriva una chiamata radio dal centro operativo della stazioncina di Brennerpass.
«Generale, qui sono giunti quattro treni tedeschi pieni di soldati in assetto di guerra. Cosa dobbiamo fare?».
«Chi sono? Identificare, tenente, identificare!».
«Sono reparti della 44ª divisione e della 136ª brigata di montagna. Non credo di riuscire a fermarli, generale. I treni sono pieni di scritte: Viva il Duce, e tappezzati di manifesti di Mussolini. Stanno scendendo anche qui, stanno occupando la stazione, sono tanti, sono armati».
Alla prima riunione del nuovo governo Badoglio, tenuta in un luogo segreto, si è sciolto il Partito nazionale fascista e con esso il Gran Consiglio, la Camera dei fasci e delle corporazioni, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. È stata ripristinata la Camera dei deputati. Poi sono stati messi a riposo ben ventitré prefetti fascisti. Infine è stata autorizzata la liberazione dei detenuti antifascisti.
«Bene, che altro abbiamo?» chiede Badoglio, esausto.
«Ci sarebbe la questione Mussolini» suggerisce Sorice, che da sottosegretario del precedente governo Mussolini è stato promosso a ministro della Guerra.
«Mussolini va trasferito a Ventotene. Mi pare sia già deciso».
«Maresciallo, mi permetto di suggerire l'isola di Ponza».
«Custodirlo a Ventotene potrebbe rappresentare un problema di ordine pubblico: la colonia di detenuti antifascisti è piuttosto corposa, e stanno per essere tutti liberati. Mantenere il segreto sul luogo di custodia di Mussolini diventerebbe impossibile».

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