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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:39.

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Quando lessi le tre pagine del «Post» che raccontavano la mia storia, una parte di me pensò con sollievo che qualcuno finalmente si era accorto di quale portata gli eventi del maggio 2010 avevano per la storia europea. Forse adesso si sarebbe potuto porre rimedio: gli europei avrebbero potuto dirsi la verità e cercare insieme una soluzione. Un'altra parte di me leggeva le mie stesse parole sotto la firma di un altro e cercava l'ovvio riconoscimento per aver svelato la vicenda. Invano: il libro del columnist americano nasconde la fonte della notizia, quanto al «Post» la cancella del tutto e si appropria del merito.
Non ho potuto farne a meno: ho pensato a Woodward e Bernstein. E alle storie che si raccontano sul giornalismo americano, famoso per essere spietato anche con se stesso. Il plagio o la cattura dell'opera altrui sono puniti con ignominia. Nei film. Poi ho pensato all'immortale Totò che con antica saggezza ammoniva «tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile!».
In quei giorni l'Ambasciata italiana a Washington annunciava l'ennesimo premio al giornalismo americano e poche settimane dopo i direttori dei maggiori giornali americani venivano invitati in Italia a insegnare il futuro della professione a colleghi ed editori italiani.
Da parte mia, ho scritto una lettera di protesta al «Post». Ho trattenuto l'indignazione da ex ragazzo tradito in qualcosa di profondo a cui si dà la giusta importanza solo quando si è giovani. Ho solo spiegato che non si può svelare gli inganni altrui senza osservare standard etici elevati per se stessi. Ma i miei colleghi a Brookings scuotono la testa. Washington in fondo è un piccolo villaggio – mi spiegano i sofisticati analisti politici ed economici globali – ci conosciamo tutti. Il «Post» infatti ha risposto senza troppo preoccuparsi di arrampicarsi sui vetri. Ha spedito una email a Brookings dicendo che in fondo il mio libro era stato pubblicato un anno prima e che quindi la mia storia era di pubblico dominio. A tutti noi è apparsa una spiegazione contraddittoria: nessuno può credere che il «Post» pubblichi tre pagine – strillando l'esclusiva – su una storia di pubblico dominio.
All'ingresso del giornale c'è una stele su cui sono incisi i sette principi che ispirano il «Post». Li guardo oggi con occhi diversi e mi sembrano solo frasi mal masticate sulla verità e il disinteresse. In fondo non sono i dieci comandamenti, se no su almeno un paio avrei avuto parecchio da ridire.
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