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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2013 alle ore 08:42.
Certo, a livello globale la povertà è diminuita, grazie all'ottimo andamento delle due Nazioni più popolose del mondo. La Cina dalla fine degli anni '70 in poi ha registrato un tasso di crescita medio di quasi l'8 per cento annuo; l'India è salita dall'1,5 per cento al 9 per cento del 2005-2006. Queste due Nazioni ospitano più della metà dei poveri di tutto il mondo, e pertanto la loro performance rende positivo il risultato generale. Cosa significano questi progressi per gli abitanti di India e Cina? Basta guardare al l'aspettativa di vita: nel 1960 il cinese medio poteva aspettarsi di vivere appena trentasei anni; nel 1999 il dato è salito a settant'anni, non lontano dai livelli americani.
Molti o quasi tutti i Paesi del terzo mondo, o il Sud rispetto al Nord, vedono la globalizzazione come uno strumento o un pretesto dell'Occidente per imporre al resto del pianeta un dominio e uno sfruttamento di natura post-imperialista. È senz'altro così, perché il divario apparentemente sta crescendo e chi altro potrebbe esserne responsabile? Ancora più inquietante è la conquista e la distruzione culturale che accompagna i trionfi materiali: il cinema, la musica, l'arte e l'architettura, gli eroi e le eroine, gli stili, l'arredamento, il fast-food, le consuetudini. La globalizzazione inghiotte tutto, senza lasciare spazio a chi è al di fuori.
Queste reazioni sono rafforzate dalla percezione che la storia ha fatto torto agli sconfitti, che un tempo erano la guida e l'avanguardia del mondo e ora sono messi da parte, sminuiti, umiliati. L'Occidente, dicono le sedicenti vittime, governa il mondo, fa quello che gli pare, commette crimini a piacimento. Gli imperi veri e propri si sono dissolti, ma la scuola dell'imperialismo ha continuato a generare criminali di guerra. Guardate, dicono, le prepotenze e l'oppressione contro l'Afghanistan, l'Iraq, la Palestina, il Libano, la Siria. Da qui il persistente, purulento odio verso gli americani e gli ebrei (o gli israeliani, visti come agenti degli Stati Uniti). Da qui l'infinita indulgenza verso crimini barbari, difesi come legittime e inevitabili rivalse dei deboli contro i forti. Da qui la deliberata uccisione di civili, l'uso e la celebrazione di attentatori suicidi bambini, che impiegano armi pensate per colpire e mutilare non combattenti. I deboli, è il ragionamento, non possono aver torto.
Che fare? Non abbiamo nessuna risposta certa, e di sicuro nessun rimedio singolo che possa funzionare sempre e comunque. Ma una parte della risposta, se ci sono le condizioni politiche, è adottare maggiori incentivi per l'imprenditorialità a livello nazionale. È indispensabile un'imprenditorialità pronta a imparare dai successi altrui e ad adattare i metodi e le regole del gioco di Paesi stranieri alle esigenze della situazione e della cultura del luogo. Perché è solo introducendo meccanismi più efficaci per potenziare la produttività e la produzione a livello nazionale che si può limitare la povertà.
Naturalmente non è solo questo quello di cui c'è bisogno, ma la storia ci indica che è difficile prescinderne.
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lo stralcio
Questo testo è un ampio stralcio dell'introduzione di David S. Landes «Global Enterprise and Industrial Performance: An Overview» al libro «Invention of Enterprise» dello stesso David S. Landes e Joel Mokyr & William J. Baumol (Princeton University Press, pagg. 584, £ 24,95, © 2010). Landes, storico dell'economia, professore emerito di Economia alla Harvard University, autore di opere come «The Wealth and Poverty of Nations», «Revolution in Time», «The Unbound Prometheus» e «Dynasties», è morto lo scorso 17 agosto.