Il Sole 24 Ore
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30 settembre 2013

Ci prova la Silicon Valley

di Jason Horowitz


Quelli di Fwd.us avevano appena finito di festeggiare il passaggio della riforma dell'immigrazione al Senato che subito si sono messi a cercare abboccamenti con gli esponenti più in vista della Camera dei rappresentanti di Washington. «Se questa riforma non passerà, non sarà perché abbiamo lesinato sugli incontri», dice Rob Jesmer, il responsabile della campagna. O sui finanziamenti.

Fwd.us è stata lanciata dall'ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg, con una cospicua dotazione di 20 milioni di dollari, con la benedizione del patron della Microsoft Bill Gates e di tutto il gotha della Silicon Valley. Ha uffici in California e a Washington e probabilmente è il miglior esempio – anche se non certo l'unico – degli sforzi del settore dell'high-tech per far sentire il proprio peso anche nel mondo reale, oltre che in quello virtuale. Certo, la riforma dell'immigrazione aumenterebbe gli utili di molte delle società che appoggiano Fwd.us, perché renderebbe più semplice assumere e tenersi i lavoratori stranieri più istruiti e competenti. Ma non è una questione di soldi, insistono loro. Per questa industria di sedicenti buoni samaritani, sono ben altre le motivazioni.
«È fantastico lavorare con così tante persone dotate dello spirito imprenditoriale giusto, persone che sono convinte di poter rendere la vita della gente più bella, più connessa e più produttiva, lanciando una nuova azienda o un nuovo prodotto», dice Todd Schulte, il direttore esecutivo di Fwd.us. «È realmente qualcosa che rende il mondo un posto migliore».

Sono discorsi che si possono sentire solo nella Silicon Valley, dove scarpe da ginnastica e felpe col cappuccio sono più gradite dei completi firmati, dove i ristoranti vegani sono più diffusi dei cigar bar e dove il genio è la valuta di uso corrente. Il risultato di tutto ciò è che investitori e maghi del computer hanno una forte vena libertaria e sono tendenzialmente convinti che potrebbero risolvere qualsiasi problema o quasi se quegli imbecilli del governo non si mettessero di traverso. Sembra però che questo atteggiamento da matricole del college stia iniziando a cambiare. Come dimostra Fwd.us, il portale a cui bussare per i grandi cambiamenti ormai non è più il sito o l'app di ultra-tendenza, ma le cigolanti porte dei palazzi del potere a Washington. E se la nazione fosse in cerca di una metafora degli sforzi della West Coast per contare di più all'ombra del Campidoglio, le basta guardare la clamorosa cessione a Jeff Bezos – sempre in agosto – del Washington Post, una delle istituzioni più venerande, influenti e potenti della capitale. Il multi (multi multi) miliardario è il fondatore di Amazon.com, l'uomo che ha terremotato il mondo del commercio ed è diventato uno dei padri fondatori della new economy. Per i legislatori di qui, che hanno un'opinione altrettanto alta di se stessi, questo rappresenta un segnale di maturità. Ma di sicuro i problemi non sono mancati.

La prima incursione di Fwd.us nel gran gioco delle lobby è stata paragonabile a un malfunzionamento di sistema. Per raccogliere consensi sulla riforma dell'immigrazione, l'associazione ha mandato in televisione spot patinati in stile campagna elettorale a sostegno di progetti cari alla destra, come il controverso progetto dell'oleodotto, tanto inviso agli ambientalisti. Questi spot hanno dato margine e giustificazione ai senatori repubblicani per prendere una posizione impopolare sull'immigrazione, ma hanno anche scatenato una tempesta nel cortile di casa di Fwd.us, urtando i confusi sentimenti alla «rendiamo-il-mondo-un posto-migliore» che sono la norma nella Silicon Valley. Il prezzo è stato alto, in termini di sostenitori di peso (come Elon Musk, il papà dell'auto elettrica Tesla e dei viaggi su Marte ritratto sulla cover del numero di giugno/luglio di IL) che hanno levato le tende, e in termini di futuri investitori a cui è passata la voglia di finanziare l'associazione, che quindi avrà meno strumenti per far leva.
Joe Green, compagno di stanza di Zuckerberg a Harvard e presidente (in scarpe da ginnastica) di Fwd.us, si atteggia a profeta della tecnologia applicata alla politica. Il cinismo della campagna non sembra essergli dispiaciuto: in privato l'ha definita «machiavellica»; il problema è che Fwd.us non ne è uscita né amata né temuta, ma solo sbeffeggiata, con una débâcle di public relations che ha dissuaso perfino alcuni dei senatori che avevano beneficiato dei suoi spot dal cantarne le lodi.

«Alla fin fine tutti questi gruppi più o meno si annullano a vicenda», dichiara con diplomazia il senatore dell'Alaska Mark Begich. Begich ha appoggiato la riforma dell'immigrazione, invisa all'elettorato conservatore nel suo Stato, e gli spot sono serviti a ricordare ai suoi elettori che sulla questione dell'oleodotto lui era dalla loro parte. «Nel complesso il mondo delle imprese è più coinvolto, e la sostiene. Penso che questo aiuti, perché dimostra che è uno sforzo bipartisan e che in effetti risolvere questo problema fa bene agli affari. E penso che questo sia un bene».
Dopo gli spot, Fwd.us ha organizzato iniziative più tradizionali, come i classici incontri con i cittadini, per costruire consenso in favore dei suoi alleati politici negli Stati chiave e integrare la connessione Facebook del suo fondatore con un po' di capacità politiche concrete. Schulte, ad esempio, il nuovo direttore esecutivo, è stato direttore del personale per la Priorities USA, il Super-Pac (i comitati elettorali con capacità di spesa illimitata) filo-Obama che durante la campagna per le presidenziali ha assestato un colpo micidiale a Mitt Romney con gli spot sulla sua performance a capo della Bain Capital.

«Siamo in molti ad avere esperienze politiche», dice Schulte. «Sapevamo tutti, fin dall'inizio, che non sarebbe stato facile». Ad agosto un socio di Fwd.us ha speso 350.000 dollari per acquistare spazi televisivi per spot a sostegno di Paul Ryan (candidato dei Repubblicani alla vicepresidenza con Romney e uno degli esponenti più in vista della Camera), attaccato dai gruppi anti-immigrazione.
Sentimenti feriti e compromessi sono l'aspetto sgradevole della politica. I difensori di Fwd.us hanno detto che la Silicon Valley deve sporcarsi le mani se vuole ottenere dei risultati. Lo stesso Zuckerberg ha definito la campagna pubblicitaria necessaria e «unica». Ma c'è una critica più di fondo all'attivismo dell'industria high-tech, una critica che va al di là delle sue tattiche politiche e chiama in causa la convinzione (nutrita dagli stessi protagonisti) che il mix di ambizioni elevate, spirito imprenditoriale e tecnologia d'avanguardia della Silicon Valley è in grado di salvare il mondo.
Critici come Evgenij Morozov, l'autore di
To Save Everything, Click Here (Per salvare qualunque cosa, clicca qui), deridono il «soluzionismo» del mondo della tecnologia e lasciano intendere che il settore è infettato da un'illusione di grandeur che richiama alla mente Marx ed Engels quando vedevano la locomotiva come uno strumento per unire il proletariato, o più recentemente i sapientoni che attribuiscono a Twitter il potere di rovesciare i dittatori. Ad agosto il tecnoscetticismo ha raggiunto il grande pubblico, quando il New York Times Magazine ha pubblicato un lungo articolo su un ex proprietario di nightclub e investitore di successo della Silicon Valley che ha cercato di diffondere tra i bisognosi ottimismo e voglia di fare californian-style trasbordando in Africa una manica di pezzi grossi dell'informatica («Magnati dell'high-tech in gita scolastica per salvare il mondo», recitava il titolo).

Ma gli scettici sono ancora in minoranza. In un discorso ufficiale del 2003, l'allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan incitò i magnati del settore a «portare nei Paesi in via di sviluppo una fetta maggiore del loro eccezionale dinamismo e capacità di innovazione». Qualcuno gli ha dato retta. Nel libro The New Digital Age, di cui è autore insieme a un funzionario del Dipartimento di Stato, il presidente di Google, Eric Schmidt, ha scritto che quando i cinque miliardi di persone che ancora non sono connesse avranno accesso alla rete, l'economia esploderà. Perfino il presidente Obama, nel suo viaggio in Africa, a luglio, ha pubblicizzato uno speciale pallone da calcio chiamato Socket Ball [da soccer ball, pallone da calcio, e socket, presa elettrica], che contiene un piccolo generatore elettrico: dopo averlo preso a calci per mezz'ora, il pallone è carico abbastanza da alimentare una lampadina elettrica per ore.

È un'idea ingegnosa, di quelle che fanno impazzire i mezzi di informazione: tranne per il fatto che le lampadine elettriche restano più economiche. Il Socket Ball, dicono i detrattori, è solo l'ultima di una lunga lista di seducenti prodotti salva-pianeta sfornati dalla Silicon Valley, che si risolvono in un buco nell'acqua perché fatti apposta per compiacere i donatori e i filantropi della Silicon Valley medesima, più che i consumatori dei Paesi in via di sviluppo. Questi innovatori californiani sono bravissimi a inventare gadget tecnologici per risolvere i loro problemi da mondo ricco. (Green, ad esempio, è anche uno dei fondatori di Lyft, un'applicazione per dispositivi mobili che mette in comunicazione chi ha bisogno di un passaggio con guidatori approvati da Lyft che acconsentono ad attaccare dei baffi rosa sulla griglia del radiatore della propria macchina). Sono queste le persone meglio attrezzate per salvare il Terzo mondo?

Il paradosso è che la vecchia e noiosa Washington, con quel suo Dipartimento di Stato così pesante e opprimente, a volte è capace di fare meglio di quei presuntuosi della Silicon Valley. Recentemente, la rivista Foreign Policy ha segnalato che Rajiv Shah, il brillante direttore dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, di cui si vocifera una possibile candidatura al Senato, ha creato un fondo di venture capital per trovare e verificare in modo rigoroso soluzioni per i Paesi in via di sviluppo. Ma l'industria high-tech, nonostante tutte queste chiacchiere sul lavorare insieme a Washington per migliorare la condizione umana, forse farebbe bene a preoccuparsi innanzitutto della propria sopravvivenza, o quantomeno della propria reputazione. Perché a dispetto dell'orgoglio libertario con cui enfatizzano la distanza siderale che separa la Silicon Valley da Washington, i colossi dell'industria informatica sono dentro fino al collo nello scandalo del Datagate. Le rivelazioni di Edward Snowden hanno scioccato milioni di persone e di utenti di Facebook, Google e Microsoft, perché hanno dimostrato chiaramente che il governo aveva la possibilità di mettere il naso a piacimento nei loro mastodontici database. È una relazione che complica, a dir poco, il nuovo dinamismo lobbistico del settore. Ma non vi aspettate che i professionisti della politica lo ammettano.

«Tutti sanno che si tratta di un'iniziativa finanziata da persone che fanno chiaramente parte di quelle aziende», ha detto Schulte alludendo al ruolo di Facebook, Microsoft e altri colossi dell'informatica nello scandalo dell'Nsa. «Ma noi siamo finanziati da un ampio gruppo di persone che vuole la riforma dell'immigrazione, la riforma dell'istruzione, questo genere di cose. E non credo che la maggioranza delle persone metta le due cose in un unico calderone». Peccato che alcuni senatori, a Washington, stiano facendo di tutto perché i cittadini questo collegamento lo facciano.
Ron Wyden, il senatore dell'Oregon che sta guidando nella Camera alta una battaglia contro lo spionaggio governativo e per una maggiore trasparenza, ha definito gli sforzi dell'industria informatica per arruolare gente legata al mondo politico, come Schulte, un classico caso di «porta girevole»: se le stesse persone passano con disinvoltura da incarichi politici a ruoli di lobbisti per il settore high-tech, e viceversa, è facile che vengano a crearsi rapporti stretti fra le agenzie di spionaggio e i gestori delle banche dati. Wyden non sembra pensare che l'industria informatica stia rendendo il mondo tanto migliore, anzi vuole indagare sul suo ruolo nello spionaggio governativo. E i tanto libertari imprenditori della Silicon Valley, per lui, sono tutt'uno col grande fratello.
«Sull'altro fronte», dice, «ci sono la privacy e la libertà individuale».


30 settembre 2013