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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2013 alle ore 15:19.

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In verità quasi tutti gli spettatori se ne andavano senza badarmi. Io raccoglievo i fogli, spegnevo la luce, li lasciavo sfilare fuori verso la loro cena o, meglio, gli extra nascosti in un dvd di Werner Herzog. Un ultimo sguardo alla sala vuota e me la battevo. Aprivo la porticina del proiezionista per salutare. C'era l'odore acre delle sigarette e la radiolina sintonizzata su una partita di Champions. Una sera mi spiegò che la pellicola non scorre in modo uniforme. Devono passare ventiquattro fotogrammi al secondo – sì, come le ore del giorno – perché l'azione sullo schermo sia naturale. Così esiste una sorta di anticamera per la pellicola che gira, che i proiezionisti chiamano il "riccio" o la "scorta". La pellicola forma una specie di mulinello e lì vibra. Diventa quasi invisibile, in un certo senso prende la rincorsa. Poi scende all'improvviso per sparare i fotogrammi. C'è come un momento di esitazione, simile a quella del mio dito quando aspettava per le decima volta la battuta finale di Shirley MacLaine nell'Appartamento: «Shut up and deal».
Quell'esitazione – quel respiro – era il cinema.

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