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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 08:20.

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Per lui il Gulag era il Male Assoluto del Novecento, il tempo in cui il giorno era divenuto notte, e per questo ci aveva scritto sopra 1.300 pagine. Pagine e pagine a raccontare i fatti in ogni dettaglio, i nomi e la scenografia dei lager e delle prigioni destinate ad accogliere 3mila detenuti e che in certi momenti ne ebbero 40mila, i morti innocenti per come erano stati assassinati uno a uno. Racconti alimentati dall'avere raccolto le testimonianze di 227 concittadini di Solženicyn passati anch'essi per il Gulag, e che in questa edizione mondadoriana sono indicati uno per uno.

L'ESERCITO DI VLASOV
Espulso dall'Urss nel 1974 (ci tornerà nel 1994, per poi morirvi di infarto il 2 agosto 2008), il conflitto di Solženicyn con l'Occidente è radicale, senza scampo. Parte dal suo giudizio sull'esito della Seconda guerra mondiale, sulla cecità politica degli angloamericani innanzi all'avanzare nel cuore dell'Europa di un'Armata Rossa che si stava impadronendo una a una delle nazioni a difendere le quali era scoppiata la guerra: «L'Occidente difese la propria libertà e la difese per sé ricacciando noi (e l'Europa orientale) in una schiavitù doppiamente profonda». Solženicyn racconta la maledizione dell'esser russi nel secolo ventesimo e lo fa attraverso uno dei personaggi più tragici della Seconda guerra mondiale. Nato nel 1900 in una famiglia di contadini, iscritto al Partito comunista bolscevico fin dal 1930, Andrej Vlasov era stato il più valoroso dei comandanti sovietici nei primi due anni della Seconda guerra mondiale. Comandante di Armata, era stato fra i pochissimi a sfuggire alla "sacca" di Kiev in cui nel novembre 1941 i tedeschi avevano chiuso mezzo milione di soldati sovietici. Stalin gli aveva successivamente affidato il comando di un'operazione disperata volta ad allentare la morsa nazi su Mosca, un'operazione che si rivelò un suicidio. Di tutti i suoi uomini, Vlasov fu uno dei pochi sopravvissuti e finché il 12 luglio 1942 non cadde prigioniero dei nazi. Lusingato da quegli ufficiali tedeschi che distinguevano nettamente tra la Russia in quanto tale e il regime comunista, ufficiali che deprecavano la politica hitleriana che faceva degli "slavi" nient'altro che bestiame da soma, Vlasov prese per buona la loro proposta di creare delle unità di combattimento fatte da soldati russi che avrebbero affiancato i tedeschi nella lotta a buttar giù Stalin. La speranza di Vlasov – in realtà una follia politica – era che da tali unità sarebbe nata a guerra finita un'Urss indipendente e anticomunista. Lui se ne illudeva fortissimamente e andava in giro per l'Urss occupata a dire che una cosa era la sopravvivenza del comunismo e tutt'altra cosa la sopravvivenza di una Russia democratica, e questo mentre la cerchia hitleriana diffidava di lui (di uno che non teneva in nessun conto la "questione ebraica" per come la vedevano i nazi) e gli teneva la briglia stretta al collo. In realtà e fino alla conclusione della guerra solo rarissimamente Vlasov mise in campo uomini (per lo più molto giovani) che combattessero dalla parte dei tedeschi. Da ufficiale sovietico Solženicyn li aveva avuti contro in un paio di occasioni e ricorda che si battevano come leoni. In un modo o in un altro i "vlasoviani" reclutati furono alcune centinaia di migliaia, fino a 800mila secondo la valutazione di uno studioso americano. L'operazione militare più riuscita la fecero a Praga, il 7 maggio 1945, quando si schierarono dalla parte degli insorti cecoslovacchi che stavano cacciando i nazi. Quando la guerra era ormai alle ultime battute Vlasov e i suoi supplicarono gli angloamericani di potere arrendersi nelle loro mani e di non essere consegnati ai russi. Vlasov si disse pronto ad accettare il giudizio di un tribunale internazionale sul suo operato. Gli angloamericani tradirono la parola data, e li consegnarono tutti a Stalin, ossia alla tortura e alla morte sicura. Vlasov e gli ufficiali a lui più vicini vennero impiccati alla mattina del 1° agosto 1946. Una tragedia nella tragedia, scrive il Solženicyn dell'Arcipelago, una tragedia che nessuno ricorda e della quale nessun leader occidentale ha mai manifestato rimorso né comprensione. La maledizione dell'esser russi nel secolo di Stalin e di Hitler. Una tragedia di cui Solženicyn scrive così: «La parola "vlasoviano" suona da noi come "lordura", ci sembra di sporcarci la bocca solo pronunciandola […] Ma la storia non si scrive così. Un quarto di secolo dopo, ora che la maggioranza di quegli uomini è perita nei lager e i superstiti aspettano di morire nell'estremo Nord, vorrei ricordare con queste pagine che per la storia mondiale questo fu un fenomeno piuttosto inusitato: alcune centinaia di migliaia di giovani, tra i venti e i trent'anni, presero le armi contro la propria Patria alleandosi con il suo acerrimo nemico. Forse bisognerebbe rifletterci sopra: chi ne ha maggiormente colpa, quei giovani o la loro canuta Patria? Non lo si può spiegare con un tradimento "biologico", ci devono pur essere state ragioni sociali. Perché, come dice un antico proverbio, i cavalli non fuggono dalla biada. Dobbiamo immaginarli così: un campo – e sul campo vagano, abbandonati a se stessi, cavalli affamati, impazziti». L'Ottobre 1917 fece della Russia la cavia dell'esperimento politico forse il più sanguinario del Novecento. A raccontarne l'orrore, dice Solženicyn, basterebbe pubblicare degli album con le foto di innocenti che vennero fucilati a milioni. (Un libro/album di questo tipo e che lascia senza fiato è uscito in Italia nel 2012, dal titolo La vita in uno sguardo: le vittime del grande terrore staliniano, Lindau). Il 5 marzo di ciascun anno, a ogni anniversario della morte dell'Assassino Capo, Solženicyn e altri scampati al Gulag si incontravano in una casa dov'erano esposte alcune decine di foto di morti ammazzati. In un'atmosfera a metà tra la chiesa e il museo, tutti stavano in silenzio o parlavano sottovoce. Sullo sfondo una musica funebre.

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