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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2014 alle ore 07:03.
L'ultima modifica è del 21 febbraio 2014 alle ore 10:38.

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La salute È vero: l'obesità dilaga. Ma è un argomento sufficiente, per provare che a tavola si stava meglio quando si stava peggio? Una studiosa del Saxo Institute dell'Università di Copenhagen, Tenna Jensen, ha confrontato la dieta dei danesi di oggi con quella di cinquanta e cent'anni fa. Con l'aumento del benessere, sono aumentati i consumi. Eppure, in generale, la dieta è molto più sana di quanto non fosse in passato: in media, si mangiano più proteine e meno carboidrati. Si dirà che la Danimarca è la Danimarca, una piccola isola felice, mentre nel resto dell'Occidente spadroneggia la "piaga" del fast food. Una ricerca sulle abitudini alimentari delle donne americane, comparate con quelle del 1953, conferma che oggi consumano indubbiamente più calorie: una media di 2.178 al giorno contro 1.818. I problemi di obesità e di sovralimentazione, però, non sembrano dipendere da questo: nel 1953 le donne americane ingerivano il doppio degli oli e il doppio delle uova che mangiano oggi. Assumevano molti più zuccheri, e avevano una dieta assai meno varia.
Una vita più sedentaria e meno attività fisica contribuiscono a spiegare l'aumento dell'obesità più dell'alimentazione.
È opinabile, del resto, che i nostri bisnonni mangiassero granché meglio di noi. Sappiamo che le abitudini alimentari degli italiani, dopo l'Unità, erano segnate da una dieta monotona: il pane era il cibo principale, si cucinavano zuppe, minestre, "erbaggi" per non sentire la fame, l'assunzione di calorie era insufficiente rispetto al fabbisogno e la varietà nell'alimentazione era un lusso per pochissimi. La malnutrizione era diffusa, e così problemi della crescita, anemie, rachitismo, mortalità infantile. Gli italiani consumavano una media di 16 chilogrammi di carne pro capite all'anno (oggi sono 92), e assumevano circa 1.500 calorie quotidiane di media (oggi circa 2.000). Lontano dalla costa il pesce fresco non era disponibile, il pane bianco era un privilegio dei ricchi e così la carne rossa, si beveva molto ma male. La pellagra era dovuta all'esagerata intensità nel consumo di mais, con la polenta che era pane e companatico di intere regioni.
Da questo stato di cose, ci hanno emancipato la crescita e lo scambio. Nel 1861, due terzi del reddito medio italiano era destinato al cibo; agli inizi del Novecento il 46 per cento; negli anni Settanta il 30 per cento e oggi non più del 15. «Tornare ai prodotti di stagione, i prodotti di stagione costano meno»: ma storicamente è proprio a mano a mano che si spezza la dipendenza dai prodotti di stagione che il peso dei consumi alimentari sul reddito si riduce. Che gran rivoluzione che è stata, il frigorifero. Per generazioni l'uomo è rimasto appeso all'andamento delle stagioni, era madre natura a dettare il menu. Oggi la nostra capacità di conservare i cibi è incomparabilmente più sviluppata che solo pochi decenni fa, possiamo nutrirci anche con preparazioni già pronte. Questa rivoluzione domestica ha avuto effetti dirompenti, soprattutto per le donne. Si può dire, parafrasando Karl Popper, che freezer e forno a microonde hanno fatto di più per l'occupazione femminile di qualsiasi legge o incentivo. Ma l'innovazione tecnologica non sarebbe bastata. L'elemento cruciale della grande rivoluzione alimentare che abbiamo vissuto è l'abbassamento dei costi delle transazioni. L'ecovillagio di Vicofertile, a Parma, ha spiegato il suo ideatore Giovanni Leoni, sarà un luogo dove «la spesa a chilometro zero consentirà ai residenti di dedicare più tempo ai figli»: vero, ma solo se si accontenteranno, tutti i santi giorni, di quel che passa il convento. Nell'ultimo secolo si sono drammaticamente ridotti i costi dei trasporti, e proprio questo fatto ci ha liberati definitivamente, dal giogo del tempo atmosferico. A "chilometro zero" basta una gelata per distruggere un raccolto, costringendo così le persone a cambiamenti repentini e imprevisti nelle loro abitudini. Oggi siamo ragionevolmente sicuri che ciò che mangiamo non è alla mercé dei fattori climatici. La competizione con derrate di altri Paesi incentiva anche il miglioramento delle tecniche produttive.

Questo processo competitivo trova un regolatore importantissimo nella grande distribuzione. Il supermercato è un'istituzione fondamentale della società moderna. Ha riunito in un singolo punto d'acquisto merci e prodotti i più diversi. Ha caricato l'orologio delle persone, consentendo loro di risparmiare tempo e di confrontare un più ampio ventaglio di prodotti. Così facendo, ha abbassato il livello dei prezzi e introdotto gusti nuovi anche nella dieta di chi ha un reddito basso. Ciò sarebbe impossibile senza il forte potere negoziale che alla grande distribuzione deriva, per l'appunto, dall'essere grande. E se grande non fosse, se pertanto dalla qualità degli alimenti presenti in ogni punto vendita, dal rispetto degli standard di sicurezza in città e regioni diverse, non dipendesse la reputazione complessiva di una catena e il valore del suo marchio, la nostra spesa sarebbe senz'altro meno sicura. L'insalata del contadino sarà sicuramente la più buona: ma bisogna conoscerlo, il singolo contadino, essersi informati sulla cura che mette nelle sue coltivazioni, per imparare a fidarsene. Il grande marchio della catena di supermercati svolge la stessa funzione, con meno dispendio di tempo: ci promette una garanzia di sicurezza. Se la promessa è rotta, la sanzione di mercato ha effetti nucleari.

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