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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2014 alle ore 07:03.
L'ultima modifica è del 21 febbraio 2014 alle ore 10:38.

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Come abitudine individuale, la devozione al "chilometro zero" è il piacere di capire il cibo. Come strategia di marketing, è l'assalto a una nicchia di mercato: quelli che David Brooks chiama i "bobos", i borghesi bohémien, portafoglio gonfio, gusti raffinati, passioni alternative. Siamo una società ricca, nella quale i formatori della pubblica opinione sono fondamentalmente orientati a sinistra: i "bobos" sono tanti, e rappresentano un ricco mercato. L'ha capito negli Stati Uniti John Mackey, il fondatore di Whole Foods, e l'ha capito da noi Oscar Farinetti. Entrare nel nuovo, spettacoloso punto vendita di Eataly, alla stazione Ostiense di Roma, è fare un tuffo in un avveniristico passato. Messi a confronto coi prodotti in parata sugli scaffali lindi dei negozi di Farinetti, siamo costretti a ricordare marchi e sapori dell'infanzia. Quasi all'ingresso, il "chilometro zero" troneggia: si parla di prodotti caseari, latte e yogurt rispetto ai quali, effettivamente, pare aver senso minimizzare costi e tempi di trasporto. Ma nella stessa cella frigorifera, lo yogurt reca già impresso nel nome la provenienza altoatesina. Fra Roma e Merano, di chilometri ce ne sono settecento. Eataly e Whole Foods, del resto, possono blandire gli affezionati del "chilometro zero", li corteggiano, ma incarnano l'esatto contrario. Secondo i più, per ragioni d'impronta carbonica bisognerebbe boicottare la Coca-Cola e riscoprire il vino del contadino. Peccato che la Coca-Cola non viene caricata quotidianamente su grandi cargo che partono da Atlanta. Nel nostro Paese, ha sei stabilimenti produttivi, due al Nord e quattro al Sud, nei quali la cola viene prodotta secondo la celebre ricetta segreta e poi imbottigliata. La domanda nazionale, dunque, è soddisfatta dalla produzione nazionale. Ma che dire invece dell'impronta carbonica di un cartone con sei bottiglie di Sassicaia, comprato da Eataly in Fifth Avenue? Questi meravigliosi supermercati (perché altro non sono) fanno quello che i supermercati fanno da che esistono. Avvicinare consumatori e produttori indipendentemente dalle distanze geografiche. In essi, si compiono scambi che non avverrebbero se il "chilometro zero" diventasse una politica, e cioè un groviglio di prescrizioni e divieti.

Un mondo a chilometro zero è un mondo nel quale la varietà dell'offerta è minore, non maggiore. L'idea sottesa è che tutto il processo di "industrializzazione" dell'alimentare sia stato se non proprio una truffa, quasi. La produzione di massa non ha meriti: ci ha derubato del senso delle cose genuine, dei sapori, dei legami sociali che s'intrecciavano acquistando una melanzana o un pezzo di formaggio. Comprare asparagi peruviani a marzo è contro natura, spezza l'armonia delle stagioni, è un'affermazione egoista della nostra libertà. E lo stesso può essere detto e ripetuto, andando a ritroso, per qualsiasi momento della produzione. «A terre italiane concimi e macchine italiane», ammoniva un manifesto fascista negli anni dell'autarchia. Il cibo è cultura, ma la cultura è confronto, curiosità, viaggio, voglia e possibilità di sperimentare. È paradossale che si ragioni come se il BigMac e il pecorino di fossa abitassero su pianeti differenti. Ricorda la mentalità polverosa di quei professori di liceo che sono riusciti a farci odiare la letteratura col loro incessante pontificare contro i romanzi d'evasione. C'è un tempo per tutto, nella vita, e se capita che uno desideri mangiare un hamburger, non significa che non possa apprezzare un bicchiere di Barbaresco. Così come non è che chi ama romanzi gialli non possa capire Manzoni. Il libero esercizio della curiosità insegna come dosare gli uni e gli altri, e la dose giusta è sempre e soltanto quella che un individuo decide per sé. Noi mangiamo meglio di cent'anni fa, c'interessiamo di più di quel che mangiamo, il costo dei consumi alimentari in rapporto al nostro reddito è inferiore, giustamente pretendiamo di mangiare indiano a Milano e italiano a Londra. Questa intensificazione degli scambi ci ha resi più ricchi, più consapevoli, e probabilmente anche un poco più tolleranti.

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