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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2014 alle ore 09:30.

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Fino al giorno in cui sono stato incaricato di scrivere questo pezzo, il bisogno umano di glamour mi sembrava il vizio cognitivo peggiore dell'umanità. Io e quelli come me, molti intellettuali italiani, non riconosciamo alcun diritto al glamour – al fascino, alla capacità di conquistare cuori nascondendo i difetti – agli artisti che non condividiamo e al discorso pubblico su di loro. E ci preoccupiamo seriamente che il loro smalto possa ingannare il popolo schiavo del midcult, producendo in esso emozioni sbagliate.

Alla faccia nostra, ecco forse a che cosa serve il glamour: un regista italiano si è dato un tono, ha dato l'idea di saperci sbottonare i pantaloni con un piano sequenza, di avere una sua arruffata grandeur, e ora un giovane aspirante regista italiano che sta scrivendo il primo film può sognare, qui e adesso, di fare un giorno un film italiano grandiosetto che susciti reazioni scomposte e faccia sentire splendido chi esce dal cinema. (Il glamour di Fitzgerald mi ha fatto venire molta più voglia di scrivere, a diciott'anni, della nervosa pensosità di Vittorini, i cui libri mi esaltavano al liceo ma non mi facevano immaginare che fosse bello scrivere un libro e che fosse emozionante, dopo, apprendere che qualcuno l'aveva letto di notte o aveva perso la fermata della metro perché era assorbito dalla lettura. Vittorini non mi avrebbe mai fatto sognare una cosa tanto poco sostanziale, tanto glamorous – affascinare una donna fino a farle saltare una fermata o perdere il sonno – perché la questione fondamentale sarebbe stata: sì, ma è solo un modesto romanzo d'esordio che non sposta di una virgola la sensibilità umana, quella italiana, quella romana).

Quando l'Italia, così ci dicono, era piena di geni, uno di loro, Ennio Flaiano, capiva il glamour benissimo, e senza perderne un grammo, diceva al suo pupillo Vaime, seduti al caffè Rosati, a piazza del Popolo, in mezzo a una folla di aspiranti alla Dolce vita: «Guardali, credono di essere noi». Era demistificazione o una mistificazione profondissima? Stava sfasciando il glamour di Rosati o lo stava magnificando? Difficile dirlo: la sprezzatura nella rappresentazione di sé di Flaiano è tale che lo si lascia in pace, lui può tirarsela.
La grande Francia della seconda metà del Novecento, pascolo assurdamente ricco per geni come Barthes e Foucault e Gainsbourg, è rappresentata nel mondo dall'assurdo meme eterno del poster da cameretta con Jean Seberg coi capelli corti che a letto risponde «7» con cinque dita di una mano e due dell'altra a Belmondo che le chiede con quanti è stata prima di lui: è la locandina di un film tutto glamour e niente sostanza come Fino all'ultimo respiro (dai, ti sfido, dimmi cosa c'è dentro a quel film, è così vuoto e hipster che Spike Jonze a confronto sembra il Qoelet).

Il cinema italiano all'estero è stato fatto presente per anni da icone vuote come la Loren – che presentando Benigni agli Oscar l'ha agganciato automaticamente al corpo mistico del cinema del Dopoguerra – e Isabella Rossellini, che legando il passato glorioso italiano che ha nel sangue alla biografia di uno dei grandi americani del nostro tempo, David Lynch, ha conservato nell'immaginario occidentale l'idea che l'Italia esista ancora. (Un po' del merito è anche di Lapo).
Gli americani, molto più giovani di noi (quando voi eravate indiani noi eravamo già froci), hanno perso il gotico puritano e cominciato a coltivare il glamour dagli esordi della Metro Goldwyn Meyer fino alla coppia Kim Kardashian / Kanye West senza nessun timore che vada a scapito della sostanza: Kanye, uno degli artisti più rispettati d'America, sta con il simbolo dei reality. Dove noi consideriamo il glamour una sorta di aroma artificiale per rendere digeribili cibi avariati, gli americani lo coltivano come fondamentale aura e scudo protettivo dei luoghi in cui c'è la creatività o il potere, in entrambi i casi lo Zeitgeist. Ho l'impressione che senza quel bisogno sfrenato di credere che qualcosa sia bello e valga la pena di essere celebrato sia difficile immaginare cose nuove.

Ecco un case study per capire il rapporto tra glamour e sostanza: esiste una concezione puritana del progresso per cui è la buona e brava gente della nazione a inventare nell'ombra le forme e le idee nuove; è la gente che lavora senza farsi sentire, è chi fa le cose con frugalità. È una mezza verità: il lavoro intenso per la produzione di idee, di immaginario collettivo, di possibilità, di nuove forme sociali, richiede sì quella specie di duro lavoro che si può fare solo nell'ombra e discretamente, con regolarità calvinista; d'altra parte, chi deve inventarsi nuove forme e categorie sociali deve avere un certo smalto, altrimenti verrà preso per il culo ogni volta che propone un'idea nuova. La nuova classe intellettuale italiana è talmente priva di smalto che ogni volta che un suo singolo membro va dall'establishment a proporre un'idea viene ridimensionato ed è raramente considerato interessante.

Il grande quotidiano, la produzione televisiva, il think tank politico, invece di ricercare ansiosamente i contributi della nuova generazione della classe intellettuale, la divide e la comanda con la mancanza di rispetto. Se alla Pixar e tra gli spin doctor di Obama lavorano degli under 25 è perché per produrre idee nuove serve la gente nuova. Ma la gente nuova in Italia gode di pessima stampa: non abbiamo l'aria né interessante, né intelligente, né pericolosa, né utile. I nostri miti non fanno sangue, ci vestiamo male, non ci diamo un tono, invece di stringere la mano e guardare storto l'interlocutore diamo quei cinque patetici, non alziamo il bavero del cappotto, non portiamo la giacca, non facciamo vedere quanto siamo esauriti e come sfasciamo i mobili di casa quando non ci entrano i pagamenti. Non abbiamo nessun fascino, eppure anche noi beviamo, pippiamo, facciamo a botte in cucina e ci tiriamo piatti e bicchieri, anche noi abbiamo i capelli bianchi e molta esperienza. Se ci dessimo un tono, chessò iniziassimo a vestirci come i russi o smettessimo di colpo di salutare le persone con cui lavoriamo e usassimo il lei e pretendessimo che ci si offra da bere a ogni riunione di lavoro non pagato, succederebbe qualcosa?

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