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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2014 alle ore 08:35.

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Dietro questa rete globale di amici sinceri Anderson è un grande timido. Anche un grande ascoltatore. Con gusti precisi e precise idiosincrasie: gli piacciono i ristoranti buoni ma non stellati e gli alberghi vecchi; ama le casseforti e le scatole, e si dice che tenga tutti i suoi ossessivi oggetti di scena in un caveau nella casa newyorchese del Lower East Side. È un perfezionista, può stare ore alla moviola per decidere il colore giusto di una scena, come quella del falò nel Treno per il Darjeeling, racconta Antonio Monda, che lo frequenta a New York e che lo intervista in un falso talk show allegato al dvd delle Avventure acquatiche di Steve Zissou: Mondo Monda. È silenzioso, è un ascoltatore, ha un rapporto non allegrissimo col denaro. È un conversatore brillante, quando si sente al sicuro, e dietro la facciata dandistica – il cappotto del sarto, i gilet, i completi di velluto, i pantaloni cortissimi che condivide con Joaquin Phoenix in Her – si nasconde un calore umano inaspettato. Da piccolo voleva fare naturalmente lo scrittore, perché come dice Calvino, che pure l'ha probabilmente influenzato, «uno scrittore è un bambino di talento che non si è sentito abbastanza amato»; poi all'Università del Texas di Austin c'erano tanti libri di cinema, e si è messo a fare il regista. Ma molti dei personaggi dei suoi film scrivono racconti o pezzi teatrali; la solita Margot Tenenbaum ma soprattutto il personaggio più tenero della saga andersoniana, lo studente fallimentare Max Fischer in Rushmore (girato nella stessa scuola dove ha studiato il regista, la St. John's School di Houston), che per conquistare una professoressa molto gattamorta allestisce commedie come nel racconto giovanile di Fitzgerald, L'ombra catturata, che tratta proprio di un quindicenne alle prese con una commedia scolastica; testo molto amato da Anderson ai tempi della scuola.
«Il mondo è così grande, complicato, abbondante di meraviglie e sorprese, che servono anni alla maggior parte delle persone per cominciare ad accorgersi che è irrimediabilmente compromesso. Normalmente chiamiamo questo periodo di ricerca "infanzia"», scrive il premio Pulitzer Michael Chabon nell'introduzione a The Wes Anderson Collection, grande saggione-strenna curato da Matt Zoller Seitz già culto e oggetto supremamente andersoniano, con disegnini e mappe e modelli e storyboard. Il mondo interiore di Anderson è fatto dai Peanuts, adolescenti depressivamente filosofici; dal cinema di Scorsese, e poi Fellini, Billy Wilder (in particolare, L'appartamento); la Nouvelle Vague, ma anche molto Spielberg, e Goonies, e Guerre stellari, e Hitchcock, e il Cukor di Holiday, e i film degli americani girati in Europa con quell'atmosfera fragrante e sospesa e naturalmente fitzgeraldiana, di mondo stupendo alla frutta: Caccia al ladro, La Pantera Rosa. E ancora, Indiana Jones, e molto James Bond, col trionfo degli inseguimenti e dei mezzi anfibi; e i libri per bambini di Roald Dahl, e naturalmente Salinger, però più la famiglia Glass che Il giovane Holden.

Tutti i topoi dell'adolescenza e dell'infanzia come paradiso perduto sono presenti: la casa sull'albero, i boy scout, il plastico e il trenino; i vascelli, macchine e macchinine; tutto incapsulato in un mondo senza tempo rassicurante come le scatole di Joseph Cornell (1903-1972), surrealista americano inscatolatore d'oggetti, o come le villette in cupolette di vetro del quarantenne Thomas Doyle viste due anni fa alla mostra American Dreamers a palazzo Strozzi a Firenze; e naturalmente Anderson è un american dreamer della razza di Henry James e Forster, di questi innamorati di un'Europa solo immaginata e di un'Italia di eleganze e gigli; gli piacciono Roma, Firenze e Venezia; nella capitale durante i lavori delle Avventure acquatiche di Steve Zissou, con dinamiche paterne in alto mare, e una dedica a Jacques Cousteau, sua ossessione che ricorre anche in Rushmore (dove Miss Cross legge nella sua prima apparizione Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne) ha affittato una villa sotto il Gianicolo per cinque mesi; altrimenti sceglie l'albergo più vecchiotto e aristocratico della città, l'Hotel d'Inghilterra vicino a piazza di Spagna; a Venezia invece va naturalmente al Gritti e non prende neanche in considerazione il Danieli; a Parigi oltre a cincischiare con il clan incestuoso Coppola, Anderson vive la metà dell'anno, e ha una casa ovviamente a St. Germain; ci arriva (a Parigi) da New York, ed è l'unica volta che prende l'aereo, per cambiare continente. Anche se ogni tanto usa la nave, e chi lo conosce racconta che durante la traversata rimane tutto il tempo incantato a guardare il view of the bridge, il canale interno alla nave che riprende semplicemente il mare di fronte alla prua, per ore (come poi nei Tenenbaum Richie Tenenbaum). Oltre a New York e Parigi, Anderson ha poi una terza casa in Inghilterra, nel Kent, e in questo pellegrinare in treno e bauli viene fuori un suo lato Bruce Chatwin (tra Londra e Parigi prende assolutamente solo il treno).

Anderson è uno strano uccello aristocratico, un dandy del Sud, un Tom Wolfe giovane, un residuo di un mondo di eleganze sudiste: vengono in mente i racconti capotiani di Musica per camaleonti e del Giorno del Ringraziamento e in generale il mondo dei piccoli Capote e Harper Lee, amici di infanzia che sarebbero stati perfetti in un film andersoniano. Poi c'è anche un ebraismo solo immaginato, ebraismo newyorchese, anche qui come sublimazione del clan e di saghe del passato, ancora paradisi perduti. Il film presentato a Berlino (nei cinema italiani dal 10 aprile), The Grand Budapest Hotel, è un Anderson meets Indiana Jones meets James Bond: inseguimenti sugli sci, baroni malvagi, ereditiere dal cuor d'oro, repubbliche centroeuropee nel pieno della Prima guerra mondiale, altro mondo che sta per scomparire; grandi alberghi, portieri gallonati, cattivi con sidecar. E una delle nostalgie letterarie più struggenti e chic, quella della finis Austriae, con tutto un mondo lì pronto di Zweig, Roth, Musil, loden; però qui con trenini e teleferiche, e molte valigie e bauli, e tanti oggetti e dolcetti squisiti di pasticcerie viennesi con fiocchetti e glasse anche molto insistiti. Ma poi, a un certo punto, la solita gran voglia di tenerezza: e la poesia alla fine ha la meglio anche sulla pasticceria.

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