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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2014 alle ore 20:37.
L'ultima modifica è del 23 febbraio 2014 alle ore 16:54.
Frankie Hi Nrg, voto: 5
Di Gesù è bravo, spiritoso quanto basta, ha carisma e intelligenza. Qualcosa di più da uno come lui ce lo si aspetta. «Pedala» invece propone soluzioni musicali trite: il rap su base reggae suonava inflazionato già a metà degli anni Novanta. E per quanto riguarda il reggae, meglio avrebbe fatto a dichiarare alla dogana che il riff del suo brano finalista era preso in prestito da «Golden Hen» della buonanima di Tenor Saw. Povera Giamaica: tutti si sentono in diritto di prendere, senza neanche chiedere il permesso.
Giuliano Palma, voto: 5-
La cosa migliore che quest'anno ha portato a Sanremo è la cover di «I say i sto ccà» di Pino Daniele. Conferma del fatto che Palma funziona soprattutto se canta brani di altri, meglio ancora se famosi. Deve saperlo bene anche lui: il pezzo su cui ha scommesso tutto è «Così lontano», firmato Nina Zilli. Troppo Nina Zilli. Com'era bello quando frequentava il circuito indipendente.
Giusy Ferreri, voto: 4,5
Quando uscì fuori dalla prima edizione italiana di X Factor la spacciarono un po' come la risposta dello Stivale a Amy Winehouse. Tolta qualche affinità timbrica con l'indimenticabile Leonessa di Camden Town, la signora Ferreri ha preso una strada ben diversa, adeguandosi agli standard del pop facile facile di casa nostra. Mettendoci su appena una spruzzata di sensualità. Imbarazzanti i testi.
Noemi, voto: 6,5
La cura «inglese» le ha fatto davvero bene: ha proposto in gara due brani interessanti, purtroppo le esecuzioni non sono state sempre ai livelli cui ci ha abituato. In più, le liriche potevano essere di gran lunga migliori. Nessun dubbio sul fatto che Noemi un senso preciso nel panorama della musica leggera italiana ce l'abbia.
Perturbazione, voto: 7
Che bravi i Perturbazione: con la macchina della kermesse nonché con tutto ciò che ci gira intorno non hanno nulla da spartire. Lo sanno benissimo. Sono una band del circuito indie ma si concedono un contest(o) nazionalpopolare con intelligenza: «L'unica», brano scelto dal pubblico televotante per la finale, propone l'accoppiata arrangiamento dancefloor-testo malizioso e ironico. Stesso mix che a un altro vecchio figlio del circuito indipendente (Daniele Silvestri con «Salirò») portò molto bene qualche anno fa. Il posizionamento finale conta fino a un certo punto.
Raphael Gualazzi e The Bloody Beetroots, voto: 7
Il rischio più grande, per un giovane talentuoso come Gualazzi, era restare prigioniero dell'aggettivo jazzy: troppo pop per il jazz vero e proprio, troppo raffinato per i capodanni in piazza. The Bloody Beetroots, producer di musica elettronica originario di Bassano del Grappa con relazioni in tutto il mondo, lo ha tirato fuori da questa pericolosa terra di mezzo. «Liberi o no» e «Tanto ci sei» hanno un loro perché anche fuori dal festival e questa è la cosa che conta.
Renzo Rubino, voto: 7,5
Insieme con Nina Zilli e Gualazzi rappresenta senza dubbio uno dei maggiori regali che la categoria Nuove proposte del Festival ci ha fatto nelle ultime cinque edizioni. Il ragazzo è un talento assoluto: coniuga un gusto compositivo raro per la sua età e indiscutibile originalità nella scrittura dei testi. In più, sul palco si muove come Lucio Dalla da giovane. Con un po' di fortuna dalla sua, è destinato a durare.
Riccardo Sinigallia, voto: 7,5
Gli alziamo il voto di mezzo punto per la spiacevole vicenda bizantina di cui si è ritrovato vittima. Sul piano compositivo, «Prima di andare via» era probabilmente la canzone più bella di questa edizione: l'unico limite era rappresentato dall'eccessiva somiglianza con «La descrizione di un attimo» che sempre lui aveva scritto con i Tiromancino. Lo hanno squalificato perché, a giugno scorso, in un concerto (benefico!) l'aveva fatta ascoltare in anteprima. Metafora perfetta di un Paese in cui le regole esistono soltanto per imbrigliare chi ha talento e buoni propositi. Ma Sinigallia – che da gran signore si è assunto le sue belle responsabilità - ha le spalle larghe e saprà guardare oltre.
Ron, voto: 6
Ron o chi per lui deve avere le antenne ben dritte su quanto, musicalmente parlando, succede in giro per il pianeta. Mancava ancora una declinazione italiana del genere neofolk con cui i Mumford & Sons, partendo da Londra, hanno conquistato il mondo. Quel mix di country, rock e malinconia, con banjo e chitarre acustiche al centro della scena. Con «Sing in the rain» ce l'ha offerto un signore di 60 anni. La classe non è acqua.
Rocco Hunt, voto: 6,5
Mezzo punto in più, per incoraggiamento, al 18enne rapper salernitano che a furor di popolo si è imposto nella categoria Nuove proposte. Nel genere con il quale si cimenta, i testi sono tutto e «Nu juorno buono» non può affatto ritenersi un'opera matura, grondante com'è di banalità buoniste sulla Terra dei Fuochi e l'orgoglio ferito delle genti campane. I grandi rapper napoletani sono tutti «cattivi», diventa allora difficile prevedere dove può arrivare un ragazzo dalla faccia pulita. Un verso, però, ci è piaciuto: «Il mio accento si deve sentire». Caro Rocco, resta fedele al tuo accento. Chi, prima di te, l'ha usato non le ha mai mandate a dire.
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