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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:04.

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Durante la navigazione, a parte le guardie e l'infinita burocrazia, gli italiani hanno poco da fare. Il primo ufficiale – un harleysta abruzzese dell'87, spigliato e accogliente, che alle spalline coi gradi preferisce magliette di gruppi rock – mi fa fare un giro d'ispezione del carico, e mi parla di contrabbando. Il termine, che per me ha il suono di una cosa proibita, è una banalità per chi per lavoro sposta cose per il mondo, e dà per scontato che molte di queste siano vietate.
Mi spiega che il mezzo principale del contrabbando non sono i contenitori – scansionati al laser in porto – ma le auto di seconda mano. A bordo ci sono centinaia di auto usate, destinate al Gambia e alla Sierra Leone, colme fino all'orlo di materassi, copertoni, scatoloni; alcune hanno i vetri oscurati, gli sportelli chiusi con la saldatrice. Chi le spedisce si impegna a che abbiano l'abitacolo vuoto, ma all'imbarco nessuno ha tempo per verificare che lo sia davvero. E così capita che i marinai ne frughino i contenuti, in cerca di qualcosa che, se rubato, nessuno potrà reclamare (lì non c'era niente!).

C'è chi trova bagagliai pieni di cellulari, computer, tv; si spera sempre, in parte scherzando, in un carico di droghe da trafugare e rivendere. Su un portacontainer di un'altra compagnia, mi dice, hanno aperto un furgoncino tanto carico che le ruote posteriori erano scoppiate per il peso. Hanno tagliato col flessibile le porte saldate e l'hanno trovato pieno di mitragliatori.
Ma tutto questo non sembrava preoccupare gli ufficiali di dogana che ad Amburgo avevano riperquisito la nave, chiudendo un occhio sul tabacco in eccesso che avevo con me. Non sembra preoccupare neanche i loro corrispettivi a Dakar, a Banjul e a Freetown, le nostre tre tappe africane, ma per ragioni forse differenti. Le autorità di questi Paesi salgono a bordo in numeri molto più massicci che in Europa; indossano divise gallonate, o camici da medico, o sgargianti tuniche tradizionali. Oltre alle cartellette portano con sé dei rotoli di grossi sacchi per la spazzatura azzurri, di plastica spessa.
Spuntano dall'ufficio del comandante dopo una visita sommaria, e la ragione dei sacchi appare più chiara. Sono pieni di stecche di sigarette, bottiglie di whisky, pacchi di caffè – che hanno richiesto dalle scorte della nave per chiudere un occhio su una sterminata lista di presunte irregolarità. Li aspetto fumando nel ponticello d'uscita e ne vedo alcuni che insistono col cuoco per farsi aggiungere al malloppo una cassa di lattine di Coca-Cola. Si allontanano in fila, i galloni che luccicano al sole equatoriale, reggendo i sacchi rigonfi su una spalla come malviventi dei cartoni animati.

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