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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2014 alle ore 07:59.

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Il New Yorker, tuttavia, rappresenta anche una fonte di grandi dolori ed è collegato a due date cruciali nella sua vita professionale, che ne hanno trasformato l'immagine pubblica cristallizzandola nel ritratto di una vecchia inacidita con tutto e tutti, spegnendo il suo originale punto di vista sulla realtà, portandola infine a una forma di reclusione volontaria nella sua casa-mulino in Connecticut. Un confronto tra una foto di Renata scattata da Avedon alla fine degli anni Settanta e un ritratto recente con il volto pieno di rughe, la lunga coda di capelli bianchi, la mise trasandata di campagna, può dire qualcosa in proposito e non soltanto degli anni trascorsi.
La prima data è il 1981, quando Renata scrisse per la New York Time Review of Books una lunghissima e straordinariamente accurata stroncatura di una raccolta di recensioni cinematografiche di Pauline Kael, considerata all'epoca il critico di cinema più influente d'America, ma soprattutto firma di punta dello stesso New Yorker (si provi a immaginare un recensore italiano che stronca un libro di un suo collega di giornale); una stroncatura che le attirò molte antipatie e che fu soprattutto fonte di spiacevoli frizioni con il padre-padrone della rivista William Shawn, ma che oggi può essere letta con serenità come un testo sacro della meta-critica. La seconda, più influente, è il 1999, quando fu dato alle stampe il memoir Gone: The Last Days of The New Yorker (Simon & Schuster), un resoconto meraviglioso, interessantissimo, su tre decadi di vita della rivista, tassello necessario di storia del giornalismo dal di dentro, per mezzo del quale la scrittrice espresse la convinzione che il settimanale più bello, elegante, prestigioso, creativo di tutti i tempi fosse morto con il licenziamento dello stesso Shawn, ormai anziano, e la nomina a direttore di Robert Gottlieb, potente editor di Knopf.

UN'EPOCA PERDUTA
Non si può, però, ridurre Gone a un dietro le quinte di politica editoriale o alla carrellata di ritratti al vetriolo di Gottlieb (che a sua volte stroncò il libro sull'Observer, definendo la scrittrice aggressiva e convinta sempre di avere ragione), Adam Gopnik (dipinto come un ottuso arrivista senza talento),
Tina Brown (succeduta a Gottlieb nella direzione). C'è soprattutto l'elegia di un'epoca d'oro della cultura americana e dei suoi protagonisti, il racconto di quanto accurato e perfetto fosse il meccanismo di selezione e di editing dei testi, l'istruttiva parabola di una rivista con una sua identità peculiare e – anche in termini di entrate – di successo, che finì per smarrire la bussola, perdendo estetica e denaro, «muovendosi senza gioia troppo a sinistra» nel tentativo di accontentare il gusto del pubblico, piuttosto che guidarlo come aveva sempre fatto.
Dal 1999 fino alla ristampa di Speedboat, l'ostracismo nei confronti di Renata Adler è stato pressoché totale. La scrittrice si è ritirata a vita privata, non ha pubblicato neanche mezzo articolo. Ora, intervistata dal Guardian, si dichiara contenta per avere la possibilità, grazie alla ristampa di Speedboat, di lavorare di nuovo. Anche per i soldi, ma soprattutto perché «stabilire da soli le proprie scadenze è difficile. Ho finito per isolarmi troppo. Mi ritrovo a pensare: è lunedì? È l'Alzheimer?».

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