Cultura

Fanfani, il lavoro che non c'è e la dignità della persona

  • Abbonati
  • Accedi
memorandum

Fanfani, il lavoro che non c'è e la dignità della persona

Non ho potuto esserci lunedì scorso alla Sala Zuccari del Senato, a Roma, per ricordare Amintore Fanfani, storico dell'economia, cavallo di razza della Democrazia Cristiana e uomo delle istituzioni. Avrei voluto parlare di quello che ho sempre pensato fosse il fondamento (spesso) dimenticato della sua azione frutto dell'anima sociale dello studioso e della passione del politico: il valore dell'uomo viene prima dell'economia, anzi questa è concepita al suo servizio, e di conseguenza la concretezza del proprio impegno di governo, con il piano casa e l'attuazione della riforma agraria, per rispondere ai bisogni delle persone. Questo è il Fanfani realizzatore straordinariamente attuale perché può parlare ai giovani di oggi con la forza delle sue scelte politiche, la lotta alla povertà e la soddisfazione delle persone, che piace a me. Non ha nulla a che vedere con il Fanfani sferzante e a volte prepotente che è venuto dopo, per quello che è stato davvero o per come si è voluto rappresentare nella partita del potere. Capirete, a questo punto, perché mi ha colpito (molto) un breve scritto che mi ha voluto fare avere Angela Maria Bocci Girelli, allieva e erede di Fanfani nella cattedra di storia economica alla Sapienza, dove si legge testualmente: «per lui il lavoro rappresentava non solo uno strumento per l'ottenimento di un reddito in grado di garantire benessere o almeno dignitosa sopravvivenza, ma un fattore indispensabile per la realizzazione della persona e per la costruzione di unità e coesione sociale. E le disposizioni costituzionali come gli articoli 1, 3, 4, 41 non sono "semplici dichiarazioni di desiderio" ma servono a garantire proprio i più giovani: in una economia sociale di mercato, come è la nostra, non deve esserci spazio per lavori troppo aleatori o che generano isolamento e disarticolano la società». Mi piace ricordare che cosa disse proprio Fanfani, nel suo intervento del 22 marzo 1947 all'Assemblea costituente, che mi è già capitato di citare in questa rubrica: «Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto a un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale». Forse, è questo lo spirito di cui oggi il Paese ha più che mai bisogno se vuole (almeno) provare a spezzare la spirale perversa del lavoro che non c'è. La politica non deve darsi per vinta e dimostrare con i fatti che è capace di ripetere quel miracolo che ha cambiato l'Italia. Il Paese deve cominciare a crederci e alimentare una fiducia contagiosa che viene da cose vere. Tocca (molto) ai politici, tocca (molto) anche a noi. Prima lo capiamo e ne traiamo le conseguenze, meglio è per tutti.
roberto.napoletano@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA