Cultura

I ricordi di Spezia e l'incanto del monte di Don Cesare

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I ricordi di Spezia e l'incanto del monte di Don Cesare

In un giovedì pieno di sole sono tornato a Spezia per presentare Promemoria Italiano accogliendo l'invito di un amico d'infanzia, Matteo Melley, compagno di basket al DDM con il fratello Guido. A Spezia sono nato e ho trascorso i primi quindici anni, quelli più importanti in quanto formativi, dalle elementari al quarto ginnasio sempre a piazza Verdi. Posso dire che resta l'unica città dove non devo chiedere le strade perché quelle fatte da bambino non si dimenticano e perché è tutta lì in un fazzoletto, raccolta e discreta. Manco da Spezia da molto tempo e scatta inevitabilmente l'album dei ricordi, passo sotto casa e cerco il mio balcone che affaccia sul lungomare, mi rivedo ragazzo a inseguire con lo sguardo i gabbiani e, nei giorni più nitidi, a "toccare" con gli occhi Lerici, Portovenere, le Cinque Terre, una dietro l'altra le perle del Golfo dei Poeti. Mi fermo a piazza Verdi, entro da Fiorini, mi accorgo che ora ha anche una caffetteria, ogni mattina per anni qui ho comprato la focaccina prima di entrare in classe. Risento la voce della mia professoressa di italiano delle scuole medie, era molto severa, amava il suo lavoro e si faceva amare, mi ha inculcato con naturalezza l'ossessione della lettura.
Tra un amarcord e l'altro rischio di fare tardi e arrivo alle 17 e 30 in via Chiodo, sede della Fondazione Cassa di risparmio di Spezia presieduta da Matteo, dove mi attendono tante facce amiche. Mi ritrovo tra le mani, quasi senza accorgermene, una decina di fogli in ciclostile che parlano di me e di Don Cesare, dei "momenti forti" trascorsi con i ragazzi di Cristo Re a La Verna, nel Casentino, il silenzio del monte, l'incanto di un'Ave Maria cantata ai falò della sera. A consegnarmi il prezioso plico è un radioso Carlo Baiardi, uno di noi, e mi restituisce pensieri di vita («il monte ha fatto un altro regalo alla mia anima») che non ricordavo neppure di avere messo per iscritto. Tra i fogli del ciclostile trovo un appunto che mi riguarda: «Non ha seminato senza frutto, neppure per me, caro Don Cesare». Ne trovo un altro di un ragazzo che ha abbandonato la comunità e vuole tornare: «Le scrivo dal mio ufficio per chiederle, caro Don Cesare, un grosso favore: quest'anno ho il desiderio di prendere di nuovo parte al campeggio vernino...». In calce ai due appunti questo prete semplice, testardo, chiosa: «È proprio vero, più passano gli anni e più mi accorgo che la Verna continua a operare». Sì, Don Cesare, voglio dirlo ora che non c'è più, aveva ragione lei, per chi l'ha vissuta, «non è una parentesi: è una vita». Entro in macchina e penso alla fortuna di essere nato qui tra persone che risparmiano anche sulle parole ma mi hanno saputo trasmettere la forza del silenzio e la gioia della Verna.
roberto.napoletano@ilsole24ore.com
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