Cultura

Quei talenti e quella creatività che l'Italia smarrita lascia scappare

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Quei talenti e quella creatività che l'Italia smarrita lascia scappare

«Caro direttore, buongiorno. Sono figlio di contadini, nel 1975, dopo 14 anni da dipendente, mi avvio con mia moglie a produrre scarpe da montagna. Come abitudine nella nostra zona, tiriamo fuori dal garage la vecchia 500 e mettiamo dentro la prima macchina per produrre scarpe. Anni buoni, investiamo subito nel marchio nostro ed iniziamo ad esportare in Austria, Germania, Svizzera, dopo qualche anno è la volta della Francia. Con l'Italia troviamo difficoltà a causa del prodotto di qualità e ben curato. Arriviamo ad esportare fino al 90% sempre da soli senza nessun contributo da istituzioni. Nel 1985 abbiamo investito in Scandinavia dove ancora oggi godiamo di una certa stima, esportiamo per più di tre milioni di euro. Nel 2000 trasferiamo parte della produzione in Romania ed Ungheria per rimanere competitivi su alcuni tipi di prodotto, in Italia restano 40 persone tra ricerca, parte di produzione, controllo e personale d'ufficio. Nel 2005 facciamo la scelta di diversificare i prezzi tra made in Italy e made in Romania e ci buttiamo in un grosso investimento in Cina con prodotti made in Italy. Mossa indovinata. La grande difficoltà la troviamo, in casa, nella ricerca del personale: pochissimi italiani rispondono alla nostra chiamata, siamo costretti a scegliere extra-comunitari per fare fronte alle richieste made in Italy asiatiche, comunque oggi la Cina ordina ed è in crescita. Ho tre figli che lavorano in fabbrica e il loro futuro sarà di emigranti di lusso. Con la valigetta dovranno andare nei Paesi stranieri per farsi fare le scarpe, in Italia rimangono il design e la ricerca fino a quando i nostri concorrenti non avranno imparato un mestiere con i nostri insegnamenti. La burocrazia in ufficio è diventata un reparto da finanziare e non sappiamo mai se è giusto o sbagliato. Ti arriva la Finanza, con leggi che variano ogni giorno, e ti dice che qui hai sbagliato data di invio, qui hai sbagliato rigo e tutte piccole cose, che non sono evasione o errori che producono danno. Non avere, poi, mai l'idea di costruire! Noi disponiamo di 20mila metri quadrati di terreno ed il Comune è riuscito a fare un incrocio di 3 o 4 regolamenti. Non si riesce a costruire 2mila metri quadrati di magazzino. Burocrazia eterna. Con il fisco non mi dilungo, sappia solo che la nostra è una piccola impresa familiare e fattura poco più di dieci milioni, grazie per il tempo che ci dedica». Alessandro Marcolin, Maser Treviso, giovedì 26 dicembre.
Ho voluto sentirlo, l'uomo è quello che si intuisce nitidamente dalla lettura della sua missiva e appartiene a un popolo di capitani d'impresa che hanno costruito in silenzio per decenni la fortuna di questo Paese, non hanno alcuna intenzione di arrendersi, ma capiscono che molto (troppo) non si è fatto perché il sistema Italia regga l'urto di una crisi finanziaria globale che si ingigantisce, in casa nostra, a causa di una macchina pubblica lenta e ossessiva, un carico fiscale odioso e un ritardo culturale diffuso che smonta pulsioni giovanili e spirito d'intrapresa. Mi dice: «Vuol sapere quanto ci hanno aiutato le nostre care istituzioni? La risposta è: zero. Guardi, io ho fatto le scuole medie, ma sono riuscito a costruire un'azienda che vende i suoi prodotti al 90% fuori dai confini nazionali. Se era per l'Ice ero già morto, non avrei dovuto neppure provarci. La prima volta che sono andato in Norvegia ho chiesto aiuto, non me lo hanno dato e hanno emesso la loro sentenza: ma che cosa vuole esportare se non conosce neppure bene l'inglese? Lasci perdere e torni in Italia. Meno male che ho fatto di testa mia...». Oggi invece questo rischio lo corriamo davvero, Marcolin ci dice che prevede per i suoi figli un futuro da emigranti di lusso, ha fatto il giro tra Bassano, Maser e Montebelluna, ha messo a disposizione macchine e formati ma di operai artigiani disposti a fare i "suoi" scarponi ne ha trovati davvero pochini. La voce si abbassa: «Se, come credo e auspico, le commesse dalla Cina per le nostre scarpe tecnologiche made in Italy aumenteranno, sarò costretto a farle fare in Romania, questo significa davvero rinunciare a un pezzo di lavoro e di futuro. Con i signori del Museo dello scarpone di Montebelluna, a metà degli anni Ottanta, ero stato chiaro: vanno bene certo questi corsi di meccanica e di arredo-mobile all'Istituto tecnico, ma insegniamo ai nostri ragazzi come si fa uno scarpone, la bellezza di custodire un capitale italiano di manualità e di innovazione unico al mondo, anche qui non mi hanno dato retta». Si ferma un attimo, butta lì: «Guardi è come se ci fosse qualcosa nell'aria, non scattiamo più, abbiamo fatto capire ai nostri giovani che fare l'operaio-artigiano è serie zeta e non riusciamo più a fare le cose che sappiamo fare da una vita perché stiamo perdendo il nostro capitale più prezioso. Che tristezza, mi creda, si chiude il cuore». Per fortuna, non è così ovunque e non sarà così neppure a Montebelluna, perché i tanti Marcolin italiani sono gente che non si arrende, supereranno lo sconforto e sapranno ricostruire il laboratorio Italia. Il rischio che corriamo, però, è grosso, c'è un virus contagioso nell'aria che dobbiamo isolare e abbattere. Non ci sono alternative.
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«Gentile direttore, mio figlio ha concluso una carriera scolastica fuori dall'ordinario sintetizzabile così: International Baccalaureate alla Anglo American School di Mosca nel 2008 (a 16 anni e 9 mesi); Bachelor in Economics& Management alla Bocconi nel 2011 (con scambio di 5 mesi alla Hong Kong University) con 110 e lode (all'età di 19 anni e 10 mesi); Master in Finance & Private Equity nel 2012 alla London School of Economics (Lse) con "distinction" e primo premio Antoine Faure-Grimaud, come migliore studente del corso conseguito a luglio 2012. In agosto comincia a lavorare a Mosca a Morgan Stanley ed a settembre del 2013 compie... 22 anni. Nonostante le credenziali, non riceve un solo cenno di interesse da controparti italiane, mentre sin dall'inizio del 2010 (quando ha ancora 18 anni ed è al secondo anno in Bocconi) comincia ad essere corteggiato da molte organizzazioni straniere quali Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Deutsche Bank e altre, in totale assenza di quelle italiane, mentre studia peraltro a Milano. Di fatto, nell'estate del 2010 Morgan Stanley gli regala uno stage di 10 settimane a Londra, vero e retribuito (con 8500 sterline + costo appartamento + viaggi aerei: altro che stage italiani inutili e sfrutta-giovani!), lo assume al termine dello stage, gli conserva il posto per due anni e gli dà anche una borsa di studio di 5.000 sterline per essersi iscritto al corso di Master of Science alla Lse! Allora la domanda è: da chi sarà composta la prossima classe dirigente italiana, fra 10/15 anni? Dalla attuale generazione di ventenni/trentenni disoccupati, sottoccupati, precari, "neet", frustrati? Con i migliori saluti Franco Tollardo, un padre emigrato, figlio e nipote di emigranti, orgoglioso (e molto arrabbiato)». Stralci della lettera inviata da Mosca, giovedì 2 gennaio, ore 15,30.
Ha 67 anni, famiglia bellunese, Tollardo è andato a lavorare in Russia, per la prima volta 12 anni fa, e ha seguito i lavori dell'Ikea di Mosca, è rientrato in Italia per un paio di anni, è poi ritornato a Mosca a fare per conto di un gruppo russo quello che aveva fatto per l'Ikea e, cioè, costruire grandi centri commerciali. Mi colpisce la determinazione di questo padre a insistere sul tema, di suo figlio e della sua storia se ne è già occupato Sergio Nava su Radio 24 nel suo splendido programma «Giovani talenti», e di queste (sue) lettere ne ho viste in circolazione sulla rete più di una, tutte (molto) simili, tutte vere. Decido di cercarlo. Mi dice: «L'itinerario di mio figlio è segnato dalla banca, dopo Mosca, ci saranno Londra e New York, le capitali del lavoro non sono più in casa nostra. Ciò che mi preoccupa è che sento l'Italia chiusa su se stessa, smarrita in mille micro-problemi e micro-diatribe. Possibile che non ci si renda conto che il nostro Paese sta perdendo la sua "migliore gioventù"? Sono centinaia di migliaia di giovani talenti che se ne vanno, si sta smarrendo la linfa positiva. Nessuno si pone seriamente il problema di quali possano essere le conseguenze. Nessuno si chiede che cosa sarà l'Italia tra 10/15 anni e, tanto meno, riflette che di questo passo rischia di essere ancora peggiore di quella così triste di oggi». Un Paese che vuole ripartire non può rinunciare ai suoi giovani talenti e l'aria che percepisce questo papà ostinato è la stessa raccontata da Alessandro Marcolin da Montebelluna. Un'aria che non ci piace di cui dobbiamo liberarci nel frastuono (amaro) dell'Italia smarrita e impaurita di oggi.
roberto.napoletano@ilsole24ore.com
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