Il Sole 24 Ore
Stampa l'articolo Chiudi

17 aprile 2014

«Sono un realista puro e triste in cerca di magia»

di Giovanni Minoli


Pubblichiamo l’intervista del 1987 fatta per la Rai da Giovanni Minoli al premio Nobel per Letteratura del 1982 Gabriel Garcia Marquez, morto due giorni fa all’età di 87 anni.

Gabriel Garcia Marquez, colombiano. Malinconico e sarcastico. Sensuale e cinico. E’ la voce, la penna di un intero continente: l’America Latina. Cent’anni di solitudine, La mala ora, Un giornalista felice e sconosciuto, Racconto di un naufrago, L’Autunno del patriarca, Cronaca di una morte annunciata. Sono solo alcuni dei suoi romanzi tradotti in almeno cinque lingue che hanno venduto milioni di copie in tutte il mondo. Nato ai tropici è stato a scuola dei gesuiti, è arrivato all’Università ma non l’ha finita. Prima di scoprirsi scrittore ha sbarcato il lunario, lavorando in cronaca per un’agenzia stampa. A diciannove anni, una sera, la folgorazione, la decisione di diventare scrittore. La fama, quella con la ‘f’ maiuscola, per il giovane Gabo, come lo chiamano gli amici, arriva nel ’67, con Cent’anni di solitudine, quando il mondo intero resta affascinato dai gigli insanguinati e dalle salamandre dorate che percorrono le sue pagine a Macondo. Nato povero Gabo ama il sogno di riscatto della giovane rivoluzione cubana, diventa amico di Castro che va a trovare trascinandosi dietro valige piene di libri. Non è a Cuba però ma è in Messico che chiede ospitalità quando nell’81 lascia clamorosamente la Colombia, lo accusano di collaborare con i guerriglieri, come il suo eroe preferito Don Chisciotte, da solo continua a combattere contro l’orrore delle dittature in america latina. Il grande affabulatore laggiù è un’autorità morale, una voce che non si può non ascoltare.

- Signor Marquez lei un giorno ha detto ‘io non potrei mai scrivere un libro partendo da un’idea. Parto sempre da un’immagine, o da un sentimento’.

E’ vero, è sempre stata un’immagine a dare il via a tutti i miei libri. Un’immagine durata anni, attorno alla quale, si è formata pian piano, un po’ come le incrostazioni sulle barche tutta la storia. Al principio c’è sempre un immagine. Se non c’è l’immagine io non vedo il racconto.

- Senta ma lei accetta la definizione di scrittore dal realismo magico? Le piace?

No. Quello che io non accetto è la definizione di realismo magico. Io sono un realista puro. I fatto è che la realtà dei Carabi, la realtà dell’America Latina in generale e la realtà credo in generale, è molto più magica di quanto possiamo immaginare. Siamo ancora troppo influenzati da Cartesio

- Ecco senta, e quindi lei si dovesse definire come si definirebbe un realista?

Un realista. Un realista triste.

- Triste? Perché triste?

Noi dei Carabi, abbiamo fama di essere gente allegra molto aperta. Invece siamo la gente più chiusa, più ermetica, e più triste che ci sia.

- Senta nella sua opera però il ruolo dei simboli e il rapporto fra il fantastico e la realtà è molto presente, come mai?

Ho l’impressione che dietro la realtà immediata, quella che vediamo, esiste un’altra realtà, che solo l’intuizione poetica riesce a captare ed è questo quindi che poi appare fantastico nel libro

- Senta si dice che quando lei scrive si mette in tuta da meccanico è vero?

Sì, semplicemente perché è molto più comodo. Uno si alza al mattino, si tira su la lampo, ed è pronto a lavorare. Perché vede io ho studiato in un collegio molto rigido, ci svegliavano alle cinque del mattino, ci lavavano nel cortile innaffiandoci con un getto di acqua fredda e per entrare in classe dovevamo essere vestiti in giacca e cravatta. Perciò mi è rimasta l’abitudine di non poter lavorare se non sono completamente vestito e sbarbato. Il modo più veloce quindi è di indossare una tuta. Una tuta che non ha assolutamente nulla a che vedere con tutti i simboli e le spiegazioni che hanno voluto dargli.

- Senta parliamo di questa sua scrittura dal punto di vista tecnico, prima di parlare del suo mondo poetico, ecco per esempio lei scrive tutti i giorni, la mattina, la notte, o quando le va? Cioè è abitudinario oppure irregolare?

Scrivo tutti i giorni, sempre alla stessa ora. Mi sveglio tutte le mattine alle 6 e passo due ore a leggere. Lo faccio a quest’ora perché con tutti gli impegni che ho non riuscirei a trovare un altro spazio libero durante il resto della giornata. Alle nove del mattino mi siedo davanti alla macchina da scrivere, fino alle 2 del pomeriggio. Deve essere così tutti i giorni, qualunque sia il giorno della settimana. Le mie settimane in altre parole non hanno domenica. E a parte questa condizione, in pratica, non ve ne sono altre. Però quando non lo faccio sento un peso sulla coscienza, mi sembra quasi di non essermi meritato il pranzo e in secondo luogo mi costerebbe grande fatica rimettermi a scrivere il giorno dopo. E’ un’abitudine che osservo rigorosamente come un impiegato.

- E quando scrive, lei fuma? Beve? Ha bisogno di caricarsi i qualche modo oppure no? Cioè ha tutti dei riti o no?

Fino ad una quindicina di anni fa, fino a Cent’anni di solitudine fumavo quattro pacchetti di sigarette mentre scrivevo. Dopo Cent’anni di solitudine, ho smesso. Da allora scrivo senza fumare. Non bevo mai e non prendo nulla che possa stimolarmi mentre scrivo. Magari lo faccio forse in altre circostanze ma non per scrivere. Anzi sono convinto che per scrivere sia necessario avere un’ottima salute e una condizione fisica simile a quella degli sportivi, a quella dei pugili. Lo considero un lavoro duro, serio, un lavoro in cui l’avversario è molto pericoloso e che pertanto richiede una condizione fisica buona come quella di un pugile.

- Ecco a proposito di questo avversario molto pericoloso, lei scrive con facilità, cioè le viene, oppure è uno di quegli scrittori che sulla pagina fatica molto?

Dopo aver passato quarant’anni scrivendo ho imparato a farlo senza difficoltà. Si può imparare, ci sono dei trucchi. All’inizio mi sedevo davanti alla pagina in bianco ed era terribile perché a volte non sapevo cosa fare. Adesso no. Adesso non mi metto a scrivere un libro se non l’ho già pensato. Se non l’ho del tutto risolto in mente, come se l’avessi già letto. Solo in questo momento mi siedo per iniziare a scrivere. La stesura del primo paragrafo, può durare molto, anche un anno. Il resto del libro poi,può richiedere tre mesi. Nel primo paragrafo si riassume lo stile, il tono, perfino la lunghezza del libro si riesce a definire nel primo paragrafo. Per questo è così difficile scriverlo. E per questo è così difficile scrivere racconti e romanzi. Perché l’inizio è sempre faticoso. Una volta risolto questo tutto il resto è molto più facile. Per quanto riguarda poi il lavoro quotidiano ho una ricetta, frutto del consiglio provvidenziale di Hemingway secondo il quale non bisogna mai portare a termine il lavoro della giornata ma se ne deve lasciar eun po’ per il giorno seguente. Così all’indomani, quando ci si alza, è già risolto il problema di come iniziare e si continua così lasciando sempre un po’ di lavoro per il giorno dopo. A me non costa nessuna fatica scrivere, anzi gli unici momenti di assoluta felicità che ho avuto nella vita li ho provati scrivendo.

- Senta ma qual è il suo romanzo più bello? Quello che lei preferisce?

 Il più bello non so quale sia, quello che io preferisco è Nessuno scrive al colonnello

- E perché è quello che preferisce?

E’ il libro che è riuscito esattamente come io lo volevo, gli altri sono sempre un po’ approssimativi e ci si avvicina più o meno a quello che uno vuole. In questo caso invece era esattamente quello che io volevo. Dopo viene la ‘Cronaca di una morte annunciata’ questo vuol dire che preferisco i libri corti. Preferisco sempre quello che i francesi chiamano la ‘nouvelle’, la novelletta, la preferisco al racconto lungo, al romanzo. Perché mi sembra che si controlli molto meglio tutto il materiale. Che sia molto facile plasmare e riflettere i propri desideri nel libro

- Si dice che alla fonte della sua fantasia ci sono le favole che le raccontava sua nonna è vero?

E’ vero e non è vero. Non sono le favole che lei mi raccontava quello che ho detto è che lei mi ha insegnato uno stile con cui raccontare che consisteva nel dire la frottola più straordinaria o la cosa più fantastica che si possa immaginare con una faccia sera convincente e che faceva credere che fosse la verità. Penso che se c’è qualcosa di reale nei miei libri si tratta proprio di questo uno scrittore può raccontare tutto quello che gli passa per la testa purché sia capace di farlo credere, e per farlo credere la cosa migliore è quello di dirlo con la faccia di chi sta dicendo la verità. Se uno non crede che sia vero, il lettore non ci crederà mai. Questo ho imparato da mia nonna.

- Senta ma oltre che dai racconti della nonna ecco da che cosa è formato il bagaglio della memoria all’interno del quale lei pesca per costruire il racconto?

Io direi che la memoria costituisce il 99% del materiale del racconto se si vuol fare una statistica. In realtà, almeno per quanto mi riguarda, l’immaginazione a me serve solo per modellare, lavorare, sfruttare e arricchire la memoria.

- Ah quindi molto più memoria che immaginazione?

Non c’è una sola riga dei miei libri che non abbia un aggancio con la realtà , che non sia custodita nella memoria. Le dirò di più, se mi viene in mente qualcosa per un libro, o se mi vengono in mente dei racconti come succede tutti i giorni io non prendo mai appunti, li lascio lì nella memoria. Quelli che dimentico si vede che non mi interessavano veramente, quelli che rimangono, insistono, insistono e persistono sono quelli che io considero e a cui dedico attenzione. E arriva un momento in cui hanno insistito tanto che li metto da parte e incomincio a lavorarci sopra. E a questo punto, l’unica cosa che faccio, è modellare questo materiale della memoria. L’immaginazione occupa davvero poco spazio nel mio lavoro.

- Il fatto per esempio che lei ha conosciuto sua madre quando aveva già sette anni, che cosa ha significato per lei nella vita?

Io non sono un freudiano. Tutto quello che è rimasto è l’immagine di una donna degli anni ’30 che ricordo molto bene e che appare nei miei libri con molta frequenza. Ha avuto molto a che vedere con il nostro rapporto. Un rapporto che si è instaurato con lei quando avevo già l’uso della ragione. E’ un po’ come se uno nascesse con l’uso della ragione. E’ come se io fossi nato con l’uso della ragione. E questo ha fatto sì che il rapporto fra me e lei sia un rapporto completamente diverso da quello filiale.

- Senta e di suo padre che rapporto ha?

All’inizio è stato un po’ difficile. Non riusciva a spiegarsi perché volevo essere uno scrittore anziché dedicarmi a un mestiere lucrativo. Quando io gli dissi che abbandonavo gli studi perché volevo essere uno scrittore lui mi rispose ‘mangerai carta’. Da allora sto mangiando carta e non ha un cattivo sapore.

- Ma è una carta che rende perché infatti volevo dirle lei ha fatto tanta fame nella sua vita, all’inizio quando mangiava solo carta poi è diventato molto ricco, ecco cosa le è rimasto di più della fame vera,? Se le è rimasto qualcosa

Purtroppo la fame individuale si dimentica molto rapidamente. Si dimentica con una bistecca e con la stessa bistecca si allevia sia la fame di un giorno che quella di un anno. La fame si dimentica subito dopo aver mangiato, per cui non ho il ricordo della fame come di un passato drammatico.

- Signor Marquez, la ricchezza, a parte le cose ovvie, di profondo allo scrittore Marquez ha dato qualcosa, oppure no?

Molte cose che servono a scrivere e a vivere. Il problema del denaro si presenta quando influenza il carattere, quando influenza la personalità. Questo non è il caso mio, perché io non mi considero un uomo ricco, ma un povero con denaro, che è una cosa completamente diversa. Il maggiore dei miei figli è colpito molto dal fatto che io vada in giro per i negozi di Francia e Italia comprando abiti, che è una cosa che mi piace molto. E alla fine dice ‘Mio padre è un uomo che si veste come un povero con abiti da ricco’. Davvero, la ricchezza condiziona solo quando arriva al cuore, e al mio cuore non è arrivata.

- E quindi non le ha tolto niente, insomma?

Sì, ha tolto molto alla mia vita privata, e molto ha tolto alla tranquillità che avevo prima, quando non mi facevano queste domande nelle interviste.

- Senta, lei non ha mai sentito, a proposito di domande cattive, una contraddizione tra le sue idee politiche di sinistra, rivoluzionarie, e la sua vita quotidiana da ricco, insomma?

La mia vita quotidiana è molto piacevole, e questo mi rende sempre più rivoluzionario. Perché ora so perché voglio la rivoluzione: perché tutti possano vivere come me. È una cosa che ho molto chiara in mente.

- Lei però ha anche detto, non so se è una cosa nella quale si riconosce o no, ‘credo che sia una grave contraddizione il volere cambiare classe e spostarsi in alto’. Ecco, il passare da ricco a povero, non rischia di far perdere questa identità? Da povero a ricco, naturalmente.

Io credo che sia un rischio, certo. Però posso solo esprimere un giudizio su di me, conosco solo l’effetto che ha avuto su di me. E so che non è grave, e non crea problemi. Invece ricordo di avere citato una frase di Sartre, che dice ‘la coscienza di classe inizia quando uno si rende conto che è impossibile cambiare classe’. La verità è che uno non cambia mai classe.

- E questo è il suo caso?

Nel mio caso, non ho mai cambiato classe. Io nel fondo, continuo ad essere lo stesso vagabondo di sempre.

- Senta, ma la politica, per lei, che cosa è?

Probabilmente è la cosa più difficile che c’è al mondo. Questo è la politica per me.

- Nel 1973, quando Pinochet è andato al potere, lei ha dichiarato che non avrebbe più pubblicato nulla, finché non se ne fosse andato dal potere. Però Pinochet è ancora lì, e lei ha continuato a scrivere. Come mai?

La vita di uno scrittore è anche piena di battaglie perse. Quella l’ho persa, ma l’ultima non la perderemo. Arrivai alla conclusione che avrei fatto di più contro Pinochet scrivendo buoni libri, che non scrivendoli. Mi ero sottomesso, senza rendermene conto, alla censura preventiva di Pinochet, che mi ridusse al silenzio per quasi 5 anni.

- Si dice che nell’82 lei fu ricevuto da Papa Wojtyla, che voleva informarsi sull’America Latina in vista del suo viaggio in Messico. Com’è andata?

Non è che il Papa volesse informarsi sull’America Latina, chiesi io un colloquio perché volevo domandare a Papa Wojtyla un aiuto per un programma a favore dei ‘desaparecidos’ in Argentina. Venni ricevuto in tempi brevissima dal Papa, in un’udienza del tutto informale. Io presentai la mia petizione, lui mi rispose che ci avrebbe pensato. Poi il programma non si fece. Mi è rimasto il ricordo di una persona che si sentiva ancora molto a disagio dietro la sua scrivania. Era arrivato da poco, ed ebbi l’impressione che gli mancasse la padronanza necessaria ad occupare quel posto. Nel momento di congedarci, ebbe perfino dei problemi con la porta dello studio, non riusciva ad aprirla perché si era inceppata la chiave. Ed il ricordo più commuovente che io ho di quel colloquio, è che in quel momento pensai ‘che direbbe mia madre in Colombia, se adesso sapesse che sono chiuso nella stessa stanza con il Papa’.

- Senta, Marquez, ma l’amore che importanza ha avuto, o ha, nella sua vita?

L’amore è la mia unica ideologia. Tutto quello che faccio, tutto quello che esiste, non riesco a capirlo se attraverso l’amore. È la mia unica ideologia, lo sottolineo.

- Ma l’amore, intendevo anche l’amore per le donne, in qualche modo.

Non si può separare una cosa dall’altra. L’amore, per me, è un sentimento ecumenico. In questo senso, io sono un cristiano.

- E la fedeltà, è importante per lei?

Il problema sta nel fatto che esiste una concezione, diciamo, poliziesca della fedeltà. Io ho molti dubbi sulla fedeltà. Io credo che, quello che si chiama accademicamente fedeltà e infedeltà, abbia pochissima importanza. Quello che è importante è la lealtà. Voglio dire che ci può essere infedeltà senza catastrofi, però non ci può essere slealtà, sotto questo aspetto sono categorico.

- No, glielo chiedo perché nel suo ultimo romanzo ‘L’amore ai tempi del colera’, si parla di un amore che dura tantissimo, che arriva alla vecchiaia. C’è una scena molto bella in cui queste due persone anziane, nel fare l’amore, tengono spenta la luce. Lei ha paura della vecchiaia?

Innanzitutto ho paura del buio, della vecchiaia non ho paura davvero. Sono membro di una famiglia di persone longeve, mio padre è morto quando aveva 84 anni, mia madre ne ha 82, e si sono mantenuti sempre molto lucidi. In altre parole, ho la speranza genetica di conservare la lucidità, se arriverò ad essere così vecchio. E se mi manterrò lucido, tutto il resto non ha importanza, perché la lucidità serve a tutto.

- E della morte ha paura?

Della morte no. Di morire sì. Del fatto di morire. Mi preoccupa, soprattutto come scrittore, che il fatto più importante della mia vita, che sarà quello di morire, è l’unico del quale non potrò mai scrivere.

- La religione e Dio, hanno uno spazio nella sua vita, o no?

Sfortunatamente, Dio non ha uno spazio nella mia vita. Nutro la speranza, se esiste, di avere io uno spazio nella sua.

- Si sa che i suoi primi maestri sono stati due scrittori a loro modo antitetici, cioè Kafka e Joyce. Poi ci fu l’incontro con uno scrittore radicato nel sociale, come Faulkner. Ecco, adesso, dopo tanti anni, qual è l’influenza che sente più determinante, se ne sente ancora una?

C’è una cosa interessante nella vita di uno scrittore. Gli si rivolgono sempre delle domande su chi l’ha influenzato. Per prima cosa uno non è molto cosciente delle influenza che subisce, e poi, quando uno sente molto il peso di un grande scrittore, tutti gli sforzi che fa non sono per assomigliare a questo scrittore, ma anzi, per non assomigliargli. Ora certo, tra gli scrittori che lei cita, ce ne sono due dei quali ho sempre cercato di liberarmi, e sono Kafka e Faulkner. Credo, ad ogni modo, che qualunque influenza io abbia subito da parte loro, sia un’influenza tecnica, del modo di scrivere.

- Ma per esempio, Borges, che è uno scrittore così diverso da lei, lei come lo considera?

È un grandissimo scrittore. È un grande scrittore.

- E Vargas Llosa?

Un ottimo scrittore.

- Senta, ma insomma, chi è dopo Garcia Marquez, lo scrittore Latino-americano più importante oggi, secondo lei?

Non saprei, le assicuro. Le giuro che se ci pensassi, non riuscirei…non credo, tra l’altro, di essere io il più importante. La cosa migliore, secondo me, che è successa in America Latina in questi ultimi anni, è che si è formata una folta schiera di romanzieri che rappresenta il gruppo di scrittori più importanti che ci sono oggi al mondo.

- E fra gli italiani, chi preferisce? Se c’è qualcuno che ama.

Sciascia, attualmente. E ovviamente la bellissima poesia di Tonino Guerra, però quella tradotta da lui, che è il migliore traduttore i se stesso.

- Ed Eco? Che cosa ne pensa?

Purtroppo quando mi ha rivolto la domanda, non ho pensato ad Umberto, che è un mio grande amico da moltissimi anni, perché non ho mai pensato a lui in termini di romanziere. Sono un grande ammiratore de ‘Il nome della rosa’, che tra l’altro per me è uno dei libri più sorprendenti, in quanto, pur contenendo intere pagine in latino, è riuscito a diventare un best-seller popolare oltre che mondiale. Questo, oltre ad essere un miracolo letterario, è anche un miracolo editoriale. È un miracolo sotto tutti gli aspetti. È un libro che amo molto.

- Ma lei come se lo spiega questo miracolo?

È proprio perché non me lo spiego, che lo considero un miracolo.

- Senta, a proposito dell’Italia, un giorno lei ha detto ‘l’Italia è un Paese attraversato dai miraggi, dove non esiste la verità’. Ecco, cosa vuol dire?

È così magica l’Italia, che non si è molto sicuri che esista davvero. Tanto per cominciare è un Paese che amo moltissimo, dove vado tutti gli anni, perché entro in una specie di delirio, di follia, non appena arrivo. È questo quello che volevo dire. Sa che cosa ho detto io?ricordo invece di aver detto che gli italiani hanno fatto una scoperta che è la scoperta definitiva degli esseri umani: hanno scoperto che esiste soltanto una vita.

- Proust, quando scrisse ‘Alla ricerca del tempo perduto’, per ricercare il mondo che aveva dentro di sé visse per anni segregato in una stanza foderata con pezzi di sughero, per non sentire i rumori del mondo di fuori. Lei è uno scrittore così, o è uno scrittore che ama disperdersi con la sua immaginazione a contatto col mondo?

Al contrario, io prendo il mondo d’assalto, lo saccheggio. Quando scrivo apro le finestre, e tutti i rumori che vengono dall’esterno, tutte le voci, tutto quello che succede, lo prendo e lo metto dentro al romanzo che sto scrivendo. E vado per strada a raccogliere gente, cose, avvenimenti, e li metto in un sacco, con cui poi riempio il romanzo. È assolutamente impossibile vivere fuori del mondo, per uno scrittore.

- Come giudica questo comportamento di Proust, per esempio, di uno scrittore così?

È uno scrittore totalmente introverso. Però, ad ogni modo, con Proust è solo un problema di metodo. Perché, quando lui se ne stava chiuso in quella stanza, completamente isolato dal resto del mondo, aveva già tutti i suoi sacchi pieni della società del suo tempo, di cui è stato il chirurgo più sottile. Perciò il mondo, certo, gli interessava, solo che l’aveva già impacchettato. A me, invece, piace raccoglierlo fresco, per strada.

- Chi le sarebbe piaciuto essere, se non fosse stato Garcia Marquez?

Figlio mio.


17 aprile 2014