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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2014 alle ore 12:25.

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«Ormai si può dire in verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori, giacché gran parte degli scrittori non legge e legge men che non iscrive». Se non fosse per lo stile, nessuno immaginerebbe che queste righe recano la data del 5 febbraio 1828: in quel giorno era Giacomo Leopardi ad annotare questa considerazione amara nel suo Zibaldone. Oggi, ancor più, col proliferare della comunicazione informatica, si assiste a una bulimia editoriale incessante a cui però corrisponde un'anoressia dei lettori. Eppure, alle radici della nostra stessa storia c'è il libro, soprattutto la Scrittura per eccellenza, la Bibbia appunto che, come è noto, in greco, altro non è che il plurale di biblíon, quindi i Libri per eccellenza. In parallelo la tradizione ebraica, per definire i testi sacri, ha usato il termine miqra', cioè «la Lettura» per eccellenza (e la stessa radice lessicale è alla base della parola Qur'an, «Corano»).

Nonostante quella a cui sopra accennavamo, il libro continua ad essere una stella polare della cultura e della società, e lo stesso straordinario successo del Salone Internazionale del Libro di Torino, come quello di altre Fiere internazionali a partire da quella ormai classica di Francoforte, ne sono l'attestazione indubbia. Certo, dalla selce primordiale ora le parole si affidano al silicio della biblioteca informatica e, come su un «tapis roulant», continua a trascorrere il flusso librario, fatto di poche stelle fisse, di molte meteore transitorie e di un'immensa folla di testi «invisibili» perché letti da pochissimi e persino da nessuno. D'altronde, risuona sempre minaccioso ma veritiero il motto presente nei Saggi di Bacone: «Alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti».

Noi vorremmo, ora, in modo del tutto essenziale e fin «impressionistico» risalire alla matrice primigenia, alla cellula germinale del libro, ossia la parola, radicale e misteriosa espressione della nostra umanità e della nostra comunione dialogica interpersonale. Lo faremo ricorrendo al «grande codice» della Bibbia, che rappresenta la piattaforma del patrimonio della conoscenza occidentale. Innanzitutto ricordiamo che nella Bibbia il Dio creatore viene rappresentato all'opera non attraverso un atto «faticoso» o attraverso una lotta col nulla, come accade in alcune cosmologie dell'antico Vicino Oriente, ma semplicemente con la parola: «Dio disse: "Sia luce!", e la luce fu» (Genesi 1,3). Siamo in presenza di una parola che crea, resa in modo ancor più mirabile nel Nuovo Testamento, nel prologo del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo... Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste» (1,1-3).

Mosè stesso, quando deve rappresentare l'esperienza del Sinai, usa una frase molto significativa: «Il Signore vi parlò dal fuoco. Voi udivate il suono delle parole ma non vedevate figura alcuna: vi era soltanto una voce» (Deuteronomio 4,12). Per questo motivo non si deve fissare lo sguardo sul vitello d'oro, idolo scolpito dalla mano dell'uomo. La prima grande bellezza abita nella parola: «Non ti farai idolo né immagine di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4).

Noi abbiamo, dunque, a disposizione uno strumento fondamentale, il linguaggio, che ai nostri giorni stiamo lasciando degenerare: lo dimostra la comunicazione imbarbarita, involgarita, talmente semplificata e astratta da essere ridotta semplicemente a ripetizione di stereotipi, come attesta il lessico tipico dei cellulari. In questo modo perdiamo una dimensione fondamentale della bellezza, non solo personale, ma anche della nostra grande cultura occidentale. Si tratta di un deterioramento inarrestabile che lentamente ha cambiato persino il modo di dire Dio.

A questo proposito pensiamo a una certa teologia che, a partire dal Settecento, cioè dall'Illuminismo, ha spazzato via tutta la bellezza della parola e dei simboli contenuti nella Bibbia. La tesi allora dominante era che il pensiero puro doveva disperdere, come vento cristallino, la nebula dei simboli, dei miti e delle immagini per lasciare spazio solo alle idee. Un primo tentativo era stato effettuato già nel Seicento da parte di un filosofo francese, Nicolas de Malebranche, che aveva coniato una frase veramente curiosa nella sua paradossalità: «L'immaginazione è la pazza dell'appartamento», intendendo dire che nella dimora della nostra mente risiedeva un elemento folle, l'immaginazione. Di conseguenza è stato spontaneo il tentativo di parlare di Dio usando solo tesi astratte, il più possibile «pure», cioè lontane dalla ricchezza delle immagini affidate dalla Bibbia alla parola e alla forza dei simboli.

Il grande codice della cultura occidentale, cioè la S. Scrittura, invece, ha creato con le sue parole un patrimonio iconografico straordinario per la rappresentazione di Dio, sebbene la tradizione originaria ebraica – come si è detto – ne avesse sempre proibito qualsiasi raffigurazione pittorica o scultorea. Si coglieva, così, l'importanza di considerare la parola come un mezzo epifanico, rivelatore della bellezza divina, capace di generare l'immensa produzione artistica successiva legata proprio alla parola biblica, ai suoi simboli, alle sue narrazioni, ai suoi personaggi, ai suoi temi. Proponiamo ora un esempio luminoso per celebrare la parola come fonte di bellezza e luogo teofanico.

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