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Questo articolo è stato pubblicato il 05 maggio 2014 alle ore 12:25.

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E questo è Carlo Salvioni che risponde a una richiesta d'informazioni venutagli da Adolfo Mussafia: «Illustrissimo Signore, Io non so come renderle degnamente grazie delle di Lei troppo buone parole le quali io non accetto che come prova della squisitezza dell'animo Suo e come incoraggiamento a far qualche cosa in quel campo di studî ch'Ella ci ha aperto e nel quale ha impresso orme sì profonde.

Colla dimanda ch'Ella mi muove Ella mi fa un po' l'effetto del ricco che chiede al povero; sennonché nel rispondere io Le arrecherò il parere d'un altro ricco che è il Flechia; il quale adunque crede che il dialetto dell'iscrizioncella...». Di fronte a paragrafi come questi vengono in mente idee che non hanno niente a che vedere con la filologia o con la linguistica, e più che idee domande: era soltanto un altro uso del linguaggio, un'altra retorica? O questi estremi di severità e di gentilezza dicono anche qualcosa di significativo sui caratteri? E la totale assenza d'ironia che rintocca in ogni loro frase, questa mancanza di distacco, nella loro severa dedizione alla linguistica storica (ma come in qualsiasi altra severa dedizione?), questa serietà terribile – tutto ciò non ha a che fare in qualche modo con l'essere? Col che, naturalmente, si lascia il piano della ricostruzione storica (l'unico lecito) e si entra nel regno del romanzesco: materiale buono per le biografie immaginarie di Nabokov, di Sebald. Ma è solo per dire che leggendo le lettere di Ascoli o di D'Ancona, o la biografia dell'umbratile Carlo Salvioni, che passati i cinquant'anni si scopre interventista e manda due figli a morire al fronte, o quella del villain Francesco Corazzini, arruffone e antisemita, che per tutta la vita bussa invano alle porte di un Accademia che, giustamente, lo tiene a distanza, leggendo tutto questo si avvertono risonanze più profonde di quelle che restituisce, di solito, la storia dell'erudizione. Profonde, e anche leggermente sinistre.

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