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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2014 alle ore 09:33.

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Quando leggiamo Alla ricerca del tempo perduto, non andiamo a cercare Albertine o Madame Verdurin su Google, e se lo facciamo non ci aspettiamo niente di più che un rimando a Wikipedia e un'illustrazione. Invece eccola lì, la famiglia di Knausgård, un albero genealogico della vergogna in link, fotografie e dichiarazioni da far girare la testa a Sandro Mayer. I pettegolezzi sono l'aspetto meno importante e duraturo di Min Kamp, ma sono importanti lo stesso perché siamo portati a giudicare la celebrity culture o del real time in termini di morbo o di patologia, ma raramente ne parliamo in termini di metodo. Invece Knausgård ha creato un cortocircuito nuovo: quando descrive come ha incontrato l'attuale compagna, non fa altro che fare infuriare la prima moglie, che scopre i dettagli di questa situazione in lettura nazionale e lo trascina in radio per un confronto a due, un fatto destinato a esercitare delle conseguenze su tutta l'opera. L'autore a un certo punto inizia a scrivere sapendo di essere letto, così come il Rembrandt evocato nel primo libro dipinge se stesso sapendo di essere visto.
In più di una circostanza l'autore ha ammesso di aver stretto un patto col diavolo: voleva fare un grande romanzo, ma aveva una vita piccola. Se avesse promesso di scrivere la verità, nient'altro che la verità, sarebbe stato ricompensato?

La mia vita senza stile
Min Kamp è a tratti sublime e a tratti noiosissimo, proprio perché è una vita, con i suoi asintotici abissi e le sue distese di niente. Ma attraverso strati progressivi di tedio radicale, qualcosa si illumina. In sé per sé, l'idea dietro ai libri non è clamorosa né innovativa: Knausgård non è il primo che cerca di mettere una vita in un romanzo, fosse anche una vita stupida. Ma se i grandi romanzieri lo hanno fatto a partire da una scrittura ricercata e metaforica, lui si muove lungo il principio opposto: non è che scrive male, scrive neutrale. A volte in maniera persino sciatta: ci sono autori che piuttosto che farsi beccare a scrivere cose come «l'amore mi aveva colpito come un fulmine» preferirebbero farsi cogliere davvero da un fulmine. Lo scrittore descrive ogni dettaglio infinitesimale – vedi la forma dei candelieri durante la cena di Natale – come se volesse dimostrare fino a che punto il realismo può diventare illeggibile e finisce col diventare una specie di idiot savant della nostra letteratura, scambiato per la rockstar che non è, e anche per il genio che non è. Knausgård è come quell'amico che nel raccontare un aneddoto non arriva mai al dunque, ma nella digressione ci ipnotizza. È novecentesco, ma sotto la sua lingua pacata e nuda non c'è niente di novecentesco, perché replica gli stessi meccanismi che si innescano quando guardiamo un reality: la stordita dipendenza verso il modo in cui i personaggi si lavano i denti o si grattano lo stomaco a letto o canticchiano cose stupide in giardino. La saga, ammesso che sia legittimo chiamarla così, inizia con una voce fuori campo che descrive le dinamiche di un arresto cardiaco e fa pensare più all'intro di Grey's Anatomy che a qualsiasi capolavoro letterario. Ma forse è solo perché da lettori ormai siamo disabituati a una narrazione così piana. Nelle prime pagine scrive: «È il ventisette febbraio. Sono le 11.43 di sera. Nel momento in cui scrivo io, Karl Ove Knausgård, nato nel dicembre del 1968, ho trentanove anni. Ho tre figli– Vanja, Heidi e John– sono al mio secondo matrimonio con Linda Bostrom Knausgård. Tutti e quattro dormono nelle stanze attorno a me, nell'appartamento a Malmo dove viviamo da un anno e mezzo». Il tono ricorda quello di un malato di tisi sofferente in cambusa, ma Knausgård non è un eroe romantico. Semmai è Dostoevskij per come ti fa entrare nelle cose e Sant'Agostino per il tormento con cui ne vuole uscire.

Non sono più un autore
Da quando David Shields ha pubblicato Fame di realtà nel 2010, siamo circondati da prodotti letterari mediocri legittimati perché parlano della vita reale. Sono anni che leggiamo saggi sull'autodisprezzo di Louis C.K. e di Lena Dunham e la loro influenza sul racconto autobiografico, anni che leggiamo articoli sulla new sincerity e ci sorbiamo le teorie di Bret Easton Ellis sul post-empire dopo il collasso di Charlie Sheen in diretta televisiva. Ora invece spunta un autore che quasi sicuramente non legge questi articoli, non guarda questa televisione, non partecipa a dibattiti dai nomi altisonanti tipo «Cronaca finta di una storia vera», ma scrive l'opera in cui tutto questo precipita. Ogni tanto arrivano dei romanzi che ci dicono a che punto siamo. Min Kamp è uno di quei libri. Non è bello, ma è epocale. Soprattutto se è vero che è la sincerità, e non l'ironia, l'ethos del nostro tempo. In tutto il suo «sono andato in cucina – mi sono fatto un tè – ho spremuto la bustina – ho addentato una sardina prima dal lato destro e poi da quello sinistro» c'è una frustrazione che alla lunga ci fa venire voglia di essere più attenti alla nostra vita e di abitarla meglio. Non è una cosa che ha a che fare con la felicità, che non è mai stata l'obiettivo della scrittura o della vita di Knausgård: è una cosa che ha a che fare con il significato, o meglio ancora con la sua assenza. È il motivo per cui i lettori lo adorano: perché umiliandosi e banalizzandosi, li eleva. Tacciato di essere stato disumano con i suoi, Knausgård è stato fin troppo umano con tutti gli altri. L'ultimo volume si chiude con la dichiarazione: «Sono felice di non essere più un autore». Dal suo ritiro svedese, però, Knausgård fa sapere che non ha smesso di scrivere: si è solo riappacificato con la fiction. Forse farà un romanzo stile Borges, forse stile Calvino. Come se avesse una vita, dopo tutto questo. Il diavolo, evidentemente, non è ancora andato a chiedergli il conto.

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