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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2014 alle ore 08:33.

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Già, ma perché un ex-ragazzo prodigio come White, un tempo emblema del rock urbano, decide di trasferirsi qui, dove tradizione e turismo vanno a braccetto? E perché non è un caso isolato, se pensate che si sono comprati casa a Nashville i Black Keys e Sheryl Crow, che Robert Plant e Kid Rock li incontri per l'aperitivo, che Dave Grohl dei Foo Fighters ambienterà in città il suo nuovo reality show musicale, che Michael Buble e i Black Eyed Peas hanno aperto i loro uffici in città? Nel frattempo è appena finita la seconda stagione la serie tv Nashville, e arriverà la terza, salutata da ottime critiche e successo d'ascolto al debutto sul network Abc, con due nomination ai Golden Globe per Connie Britton e Hayden Panettiere, le interpreti delle country star rivali su cui è incentrata la serie (le musiche della quale sono supervisionate da T-Bone Burnett e Buddy Miller e scritte da gente come Elvis Costello e Lucinda Williams). Il segreto di questa accoglienza calorosa? Aver saputo trapiantare in forma televisiva il country strong, quel sapore denso e appagante, fatto di intrecci e sentimenti, di passioni e indentificazione, che fa di questa musica un ingrediente mainstream della vita americana e che evidentemente regge anche in versione soap opera (la firma del tutto è di Callie Khouri, che scrisse la sceneggiatura di Thelma e Louise – a proposito di temi caldi della società d'Oltreoceano).

Qualcosa, evidentemente, si sta modificando anche a Nashville, spesso criticata per il suo immobilismo, per il suo «squadra che vince non si cambia», per la fissità delle tematiche della sua musica, che raramente si spinge a occuparsi di attualità e vita reale, restando sempre nei dintorni del quanto sia bello bersi una birra con la propria ragazza, al tramonto, sulle sponde del fiume. Non che non esistano eccezioni alla regola, basti pensare all'ala più cantautorale ed intellettuale del country (quella di Lyle Lovett o Iris Dement, per fare dei nomi). Ma di fatto, il gusto del cambiamento tutto concentrato nelle sfumature, l'emergere di nuovi talenti-fotocopia dei predecessori (Taylor Swift o Carrie Underwood sembrano la reincarnazione di Dolly Parton e Emmylou Harris), l'exploit semi-erotico del lancio di nuove star supertradizionali (la mania che ha appena salutato il supergruppo Pistol Annies, guidato dall'ugola prodigiosa di Miranda Lambert): sono tutti gesti d'intenzionale riproposizione di un rituale. Il country è una musica circolare, autoriflettente, la cui americanità è contemplativa e narcisistica. Sta dimostrando di poter accettare minimi slittamenti progressivi, ma è un filo continuo, che si rinnova nel celebrare la perfezione di un suono magnificamente risolto. È una mistica e Nashville è la sua chiesa. Per questa compattezza che non conosce crisi, attrae celebrità che a prima vista non avrebbero niente a che fare con lei, ma che non resistono alla tentazione di assaggiare una città interamente fatta di positività musicale, nella quale vivere nuotando armonicamente.

Non a caso, un bel giorno, anche l'uomo nato per diventare l'antidoto del country, ovvero Bob Dylan, prese l'autostrada per Nashville e ci arrivò il 14 febbraio 1966. La sua era una sfida: venire qui a fare la rivoluzione, come l'aveva iniziata sul palco di Newport. Era un braccio di ferro musicale, in cui l'uomo del presente sfidava i guardiani del passato. Incontro interessante. Anche se quello che ne uscì si chiama Blonde On Blonde. Altrimenti noto come l'album country di Bob Dylan, il primo del trittico, con John Wesley Harding e Nashville Skyline che modificò radicalmente il suo atteggiamento verso la musica country, non più vissuta in contrapposizione alla canzone di poesia politica di cui si era fatto interprete, ma come materia integrante e necessaria di un'appartenenza, umana e artistica. Mezzo secolo dopo, è in atto un nuovo tentativo di sovvertimento dell'ordine costituito. Proprio Jack White potrebbe essere l'intitolato a provocare il cambiamento a Nashville, sottraendola al destino di restare uguale a se stessa e di trasformarsi in una stantia città a tema, quanto Las Vegas lo è per l'idea americana di fun & pleasure. White è un artista che al country e all'approfondimento esoterico dei suoi canoni ci è arrivato partendo da tutt'altro alveo musicale, quello del suono metropolitano di Detroit, dove le fabbriche dismesse finivano per venire usate come rock club clandestini. Da ossessivo ricercatore e archeologo dei suoni, Jack si è poco alla volta trasformato in un alchemico farmacista del country, intento a rielaborarne la formula, a studiarne variazioni e a tentare esperimenti di fusione, trapianto e innesto. I risultati sono per ora ragguardevoli. E il loro dato essenziale si connette con quanto detto in apertura: la country music non ammette barriere anagrafiche, contrapposizioni generazionali e altre pacchianate che appartengono al mondo del rock. Qui la fratellanza e l'affiliazione sono il comandamento assoluto e il rispetto è il principio fondante. Ecco allora che l'ex White Stripes, può andare impunemente a bussare alla porta delle leggende, scomodando divinità di Nashville come Loretta Lynn o Dolly Parton per farne le cavie del suo laboratorio.

Si profilano incontri memorabili: come se Viale del tramonto andasse a braccetto con Alexander McQueen, deciso a farne il remake cinematografico. Neanche il padre del cinema postmoderno americano, Bob Altman, avrebbe osato inventare un simile sviluppo per il suo Nashville. E White si avvia a diventare la possibile reincarnazione di Johnny Cash. L'ultimo che seppe spostare violentemente in avanti la tradizione – senza allentare un singolo bullone della buona vecchia America.

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