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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2014 alle ore 14:39.
L'ultima modifica è del 04 luglio 2014 alle ore 22:29.

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Anche la camorra ha il suo «intellettuale organico»: è il cantante neomelodico, cresciuto nel ventre della Napoli camorrizzata, talvolta semplice beneficiario dei canali criminali per l'esercizio della professione (nel business dei matrimoni, come in etichette e tv di quartiere), altre volte cantore della vita di clan (indimenticabili brani quali «Nu latitante», «'O killer» e «Il mio amico camorrista»), altre ancora addirittura direttamente affiliato.

Per contro, ai piedi del Vesuvio la cosiddetta musica impegnata fino al nuovo millennio ha quasi del tutto ignorato l'esistenza del problema della malavita organizzata. Perché? Sottovalutazione? Disinteresse di fronte a certi temi? Giustificazione del fenomeno figlia di un'analisi (ideologica) che lo riconduce al più generale dramma dell'assenza dello Stato al Sud? O – peggio ancora – pavidità?

Tutti interrogativi che Daniele Sanzone, frontleader della band crossover di Scampia ‘A67, si pone nel saggio «Camorra Sound», appena edito da Magenes. Un'opera a metà strada tra ricostruzione storica e pamphlet militante, supportata da una serie di interviste a colleghi più o meno illustri, intellettuali vari, napoletani e non: da Luca ‘O Zulù dei 99 Posse a Edoardo Bennato, da Raiz degli Almamegretta a Frankie Hi Nrg Mc, passando per Caparezza, il Nobel Dario Fo e lo scrittore engagé Erri De Luca. Confronti nei quali Sanzone a volte ha raccolto riflessioni critiche, altre incassato reazioni violente. Perché la domanda implicita alla ricerca («Dov'era la musica impegnata napoletana mentre il cosiddetto sistema si consolidava?») può suonare parecchio provocatoria alle orecchie di chi avrebbe potuto prendere posizione ma, per ragioni molteplici, non lo ha fatto.

Partiamo dall'excursus storico che si apre con la sceneggiata, genere nato a inizio Novecento e rinato tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta grazie a due caposcuola: Mario Merola e Pino Mauro, il guappo «buono» e «'o malamente», riconducibili ciascuno a una diversa «poetica». Il primo, attraverso i personaggi interpretati, sembrava giustificare la malavita come «male necessario» di fronte al vuoto lasciato dalle istituzioni, il secondo arriva a esaltarne la violenza come «unica via di uscita in questa società malata». È la musica ascoltata dal sottoproletariato urbano che quei modelli esprime e in essi tende a identificarsi.

In quegli stessi anni esiste anche una Napoli colta e raffinata, magari politicamente impegnata: produrrà prima il fenomeno del Neapolitan Power, con Roberto De Simone e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, i Napoli Centrale, gli esordi di Edoardo Bennato e Pino Daniele, poi il fermento post punk della Vesuwave (sono gli anni Ottanta), con i Bisca come punto di riferimento. Il terremoto dell'80 fa compiere un salto di qualità alla criminalità organizzata, esplode la guerra tra Nuova Camorra Organizzata e Nuova Famiglia ma in riva al golfo non si canta di questo. I primi a ideare un intero concept album sulla mafia sono i milanesi Giganti («Terra in bocca», 1971) mentre la canzone definitiva sulla mentalità camorristica la scrive un genovese, il grande Fabrizio De André, nel '90 con «Don Raffaé». Verranno gli anni Novanta del cosiddetto rinascimento bassoliniano: mentre nei quartieri esplodono i neomelodici che, almeno inizialmente, si rifanno alla lezione di Nino D'Angelo, per poi sconfinare nella «malamusica», nei centri sociali occupati si esibiscono 99 Posse e Almamegretta. Musica da rivolta contro il potere costituito, non contro la camorra di cui si canta solo marginalmente e che in certi ambienti viene addirittura percepita come un mero effetto del problema dell'assenza di Stato.
Per trovare prese di posizione consapevoli sul tema, secondo Sanzone, occorre arrivare al primo decennio del nuovo millennio, ai Co'Sang e ai suoi ‘A67, band nate nei quartieri di camorra ma tutt'altro che rassegnate. Produzioni che anticipano l'uscita di «Gomorra» (2006) e le apparizioni mediatiche di Roberto Saviano che inaugureranno un fortunato filone anti-mafia destinato a invadere tutte le forme d'espressione. Un libro «militante», fondato sulla rivendicazione del ruolo civile delle arti che in terra di mafia non può non passare attraverso l'esplicita denuncia delle mafia. Forse il problema è che esistono due Napoli parallele, ciascuna consapevole dell'esistenza dell'altra che tuttavia condividono valori antitetici, non si parlano, si condannano reciprocamente e così hanno scelto di ignorarsi. Finendo fatalmente per tollerarsi.

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