Cultura

I campus «americani» di Salerno e Bologna

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I campus «americani» di Salerno e Bologna

Giovedì sono tornato a Fisciano, all'università degli studi di Salerno, su invito del rettore, Aurelio Tommasetti, per partecipare alla Borsa della Ricerca, la tre giorni organizzata dall'ateneo per fare dialogare scuola, impresa, ricercatori e molto altro. Mi è tornato in mente Biagio Agnes, fu lui a volere ostinatamente che visitassi «il più americano degli atenei del Sud» (sono parole sue) e fu sempre lui a chiedermi una testimonianza alla (sua) scuola di giornalismo salernitana superando la mia naturale riluttanza.

Ero e resto dell'opinione che la strada migliore per chi vuole provare a fare il giornalista sia ancora oggi la gavetta sul campo e la trafila fuori e dentro le redazioni tra web, giornali, radio e tv. Anche questa volta, su Fisciano e dintorni, Biagio aveva ragione: uomini di impresa ingaggiati come selezionatori nel campus universitario, 700 colloqui e 120 ricercatori, 40 start up promosse e avviate sul mercato, un brulicare di appuntamenti one-to-one tra formatori e giovani universitari, borse shopper in tessuto riciclato fatte a mano dalle detenute del carcere di Bologna in mostra sui tavoli che fanno la loro figura, un'idea moderna della didattica e dell'organizzazione che si tocca con mano tra un'aula e l'altra, una distesa di laboratori, 700 residenze universitarie, asilo nido, campi da tennis, piscina coperta, due palestre, teatro e altro ancora. Mi ferma una ragazza, Francesca Fasolino, e si presenta così: «Ho ventiquattro anni faccio l'editore di un quotidiano web, vorrei coinvolgerla, mi può dare un suo riferimento mail?».

«Certo, questo è il mio indirizzo» rispondo sorpreso, ma positivamente, è bello constatare determinazione e spirito di iniziativa. In una sala del Senato accademico gremita, si leva una voce: «Dobbiamo portare le imprese nell'università, nella nostra università, dobbiamo credere nei nostri territori e nella forza delle sue specificità a partire dall'agroalimentare, solo così possiamo dare un futuro ai nostri ricercatori e contribuire alla rinascita (non assistenziale) di un pezzo di Sud». Incrocio gli occhi del rettore, annuiscono convinti, capisco che la terza missione dell'università (trovare un lavoro ai suoi studenti) qui è diventata la prima, tanta gioventù intorno tra docenti e gruppi di allievi.
Lavoro di fantasia e mi ritrovo sommerso dalla fragorosa risata di Biagio: «Non ci credevi vero che qui si faceva sul serio?».

Il giorno dopo, intorno alle 18, sono nell'aula magna Santa Lucia in via Castiglione, civico 36, a Bologna sotto le volte di una bellissima chiesa mai consacrata, cotto e legno caldo, con almeno mille tra studenti italiani, europei, sudamericani, asiatici e africani, i loro familiari e un'intera classe di docenti per la graduation 2014 della business school di Bologna, la Alma Mater, e alle prese con un tema (l'attesa dell'inatteso) che fotografa come meglio non si potrebbe i nostri giorni. Mi hanno chiesto di usare Viaggio in Italia come base di discussione, il racconto delle mille facce e delle mille inquietudini dell'Italia di oggi, la rabbia, la paura e la speranza dei nostri giovani, con Romano Prodi, che si muove e parla come un orgoglioso "padrone di casa", Massimo Bergami, direttore della scuola, e Claudio Domenicali, amministratore delegato della Ducati Motor Holding. Mi ritrovo nel mezzo di una grande festa americana, nel cuore della dotta Bologna, dove gli urrà dei giovani asiatici e africani che accompagnano la consegna delle graduation sono superati da quelli dei nostri studenti bolognesi, ma anche baresi, del Nord e del Sud del Paese. Un pubblico attento, pieno di vita e di allegria, dove la serenità degli allievi contagia i genitori, il gusto della battuta e la voglia (nobile) di sentirsi sempre in corsa per qualcosa. Il meglio, però, deve ancora venire e arriva al tramonto, in collina, a Villa Guastavillani, sede dell'Alma Graduate School da oggi Bologna business school, giardino e residenza cardinalizia del Cinquecento, dove 21donne chef italiane interpretano il tema della Graduation «realizzando la prima performance collettiva femminile di alta cucina italiana».

Ci sono proprio tutti, Massimo Bergami ma anche il direttore scientifico Rosa Grimaldi, l'amministratore delegato della Dallara, Andrea Pontremoli, tutti con la divisa bianca da chef, dietro i tavoli imbanditi di ogni tipo di cucina, dalla testa ai piedi dell'Italia, passando per piatti tipici romani, fegatini fiorentini, culatello e strolghino di Zibello, babà napoletano con crema pasticcera di Vico Equense. «Papà, vuoi qualcosa?» dice Giorgio Prodi che riempie i piatti con «lame alla mentuccia romana e pomodoro del piennolo» dietro il bancone della signora Anna che guarda il Professore, si fa la foto con lui, e dice «Contento? Suo figlio l'ho messo ai lavori forzati». I master della Alma Graduate School sono ritagliati su misura dell'economia italiana, respirano l'aria della (nostra) specialissima fabbrica con la sua dote di saperi manuali e in molti casi ci vivono dentro, ma hanno come terreno di gioco il mondo e offrono aule attrezzate e tanto verde, una didattica (molto) avanzata, scuola pubblica e risorse (tutte) private, perché nulla manchi ai nostri giovani rispetto ai migliori campus americani. Innovare si può, in allegria. Anzi, si deve.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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