Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2014 alle ore 08:13.

My24

Nel Fedro di Platone, l'unico dialogo che si svolge fuori dalle mura di Atene, Socrate afferma che «i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, a differenza degli uomini che vivono nella città». Platone mette così dichiaratamente l'uomo al centro della ricerca filosofica, trasformando l'ambiente naturale in un semplice sfondo alle vicende della nostra specie.
Tale scelta segna una tappa fondamentale della netta biforcazione fra due tradizioni: una, forte nell'antichità, eppure destinata a diventare minoritaria, considera l'uomo un essere esposto alle leggi della necessità e ai capricci della fortuna, ma incastonato in un kosmos retto da un ordine preciso, immutabile ed eterno (Aristotele, Stoici, Epicurei); l'altra, diventata a lungo dominante, innalza invece l'uomo, per usare le parole di Francesco Bacone, alla carica di «Viceré dell'Altissimo», di padrone assoluto della natura, della quale può disporre a piacimento fino a torturarla per estorcerne i segreti. La prima tradizione prevede il divieto di superare i limiti imposti dalla natura, una tendenza, con rare eccezioni, diffusa nel mondo greco, ma completata nel cristianesimo francescano dall'invito a prendersi amorevolmente cura di essa in tutti i suoi aspetti; la seconda, di lontana origine biblica, considera invece la Terra un lascito di Dio all'uomo, cui è consentito un comando dispotico su animali e piante.
Quest'ultima posizione ha portato in età moderna non solo allo sfruttamento della natura, ma a una sorta di tardiva vendetta nei suoi confronti. Dopo che gli uomini sono stati costretti nella loro storia a subirne la violenza, si ritiene venuto il momento di rovesciare i rapporti di forza: «Quando lo spirito domina, tace e obbedisce la natura», sentenzia Fichte. Questo programma, contrario ai propositi di riconciliazione con la natura e di immersione nell'ambiente diffusi in Europa (si pensi al Deus sive natura di Spinoza o al rifugiarsi di Rous-seau nei boschi dell'isola di Saint Pierre), è però in linea con l'ostilità verso la natura manifestata nella Nouvelle Justine e nell'Histoire de Juliette di Sade o, più specificamente, nei Dialogues sur le commerce des blés dell'abate Galiani: «Non stringiamo dunque alleanza con la natura, sarebbe troppo sproporzionata. Il nostro compito quaggiù è combatterla. Guardatevi attorno. Guardate i campi coltivati, le piante straniere introdotte nei nostri climi, le navi, le carrozze, gli animali domestici, le case, le strade, i porti, le dighe, gli argini. Ecco le trincee nelle quali combattiamo: tutti i piaceri della vita e quasi la nostra vita stessa sono il prezzo della vittoria. Con la nostra povera arte e con l'intelligenza che Dio ci ha dato, diamo battaglia alla natura e riusciamo spesso a vincerla e a dominarla, impiegando le sue stesse forze contro di lei». Mentre in Hegel la cui professione di fede nella necessità di un comando spietato dell'uomo sulla natura è del tutto compatibile con il resto della sua filosofia (si prenda la frase, che tanto piaceva a Marx: «Spesso (racconta suo genero Paul Lafargue) gli ho sentito ripetere il detto di Hegel, il maestro di filosofia della sua gioventù: 'Persino il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo'»), non ci si aspetterebbe invece di trovare in Novalis, uno dei più grandi poeti del romanticismo, affermazioni come questa: «lasciate che la nostra generazione faccia una lunga, ben ponderata guerra di distruzione con codesta Natura. Con lenti veleni dobbiamo cercare di sconfiggerla».
I più radicali mutamenti di prospettiva in direzione di un maggiore rispetto per la natura e per l'ambiente sono avvenuti, come è noto, in tempi relativamente recenti, quando si è cominciato a riflettere, dapprima sull'inaudito potere delle nuove armi, capaci di annientare ogni forma di vita sulla Terra (ciò è avvenuto filosoficamente con il Karl Jaspers di La bomba atomica e il destino dell'uomo), poi sul possibile esaurimento delle risorse (con la pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo, del 1972, da parte del Club di Roma che smentiva l'inveterata fiducia nella loro inesauribilità). Infine, quando ci si è resi conto della trasformazione dell'uomo in animale nocivo, che minaccia la biosfera, la fascia di appena trenta chilometri di spessore entro cui la vita del pianeta è possibile. Sono allora sorti movimenti ecologisti che hanno, per la prima volta, trasformato la natura – attraverso le loro filosofie e mitologie – in soggetto politico, diffondendo un giustificato allarme nei confronti dei mutamenti climatici, della polluzione dell'acqua e dell'aria, della distruzione delle foreste e battendosi in favore della tutela del paesaggio.
A livello di senso comune si è ora messo l'accento sul fatto, apparentemente ovvio, che nessun organismo è autosufficiente, che non può esistere e durare al di fuori del rapporto di scambio con un ambiente favorevole. La vita, i corpi nello spazio e nel tempo – dal nostro organismo a quello di un batterio o di un filo d'erba – si riproducono e si mantengono, infatti, attraverso sofisticati meccanismi di autoregolamentazione in un ininterrotto rapporto selettivo con l'ambiente fisico.
Di questo indissolubile legame con il resto della natura (del fatto che, come direbbe Spinoza, l'uomo non è «un impero in un impero», un essere autonomo rispetto alla natura: ne è soltanto una «parte») erano maggiormente coscienti i popoli antichi e, in genere, le società a base contadina il cui primato, dopo sette o otto millenni di storia umana, è finito, per il mondo occidentale, nel terzo quarto del Novecento. Anche se ormai meno della metà della popolazione del globo continua a essere impegnata in questa attività, a causa delle innovazioni tecnologiche (a partire dal primo aratro metallico a trazione animale del 1837 o dai prototipi di trattore a benzina del 1892 sino alla robotizzazione e alle biotecnologie attuali applicate all'agricoltura) il numero dei contadini è destinato dovunque a calare vertiginosamente. Da allora in poi le macchine e la tecnica mediano, quali molteplici e gigantesche protesi, il nostro rapporto con la natura e i suoi elementi, trasformano reciprocamente i vari tipi di energia, riproducono la natura (è del 1828 la primo produzione in laboratorio di un elemento prodotto dalla natura, la non nobile urea) o aggiungendo nuovi elementi (circa sei milioni di sostanze che non esistono in natura, la maggior parte costituite da derivati o sottoprodotti del petrolio).

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi